#date 1986 #SORTtopics operaismo, sindacalismo, opuscoli provvisori #source Consultato il 30 novembre 2017 su [[https://www.edizionianarchismo.net/library/anton-pannekoek-il-sindacalismo][www.edizionianarchismo.net]] #pubdate 2017-11-30T22:00:00 #notes Edizioni Anarchismo – Opuscoli provvisori N. 53
Pubblicato su “International Council Correspondence”, vol. II, n. 2, gennaio 1936.
Traduzione italiana pubblicata su “Anarchismo” n. 12, novembre-dicembre 1976, pp. 346-355
Prima edizione in volume: novembre 2013 #title Il sindacalismo #author Anton Pannekoek #LISTtitle sindacalismo #SORTauthors Pannekoek, Anton; #lang it ** Nota introduttiva alla seconda edizione Ancora un contributo paleontologico. A tutta prima sembra valutazione evidente, ma non è così. Una critica del sindacalismo proveniente da lontano e, proprio per questo, palesemente tutt’altro che vecchia. Oggi gli sfruttati si dibattono in mezzo al medesimo guado, non riescono ad andare avanti e non pensano nemmeno – non lo possono – di tornare indietro. E con loro gli anarchici, almeno quelli pensosi del problema di come fare qualcosa per andare verso la rivoluzione, quella anarchica, beninteso, che di altre rivoluzioni, piccole o grandi, con ghigliottine al lavoro o meno, sono piene le pagine dei rotocalchi. Pregnante lo scritto di Pannekoek, pregnante l’introduzione di Pulsinelli, valida perfino la mia piccola annotazione che qui colloco in Appendice. Per il resto rimando al mio Critica del sindacalismo, che diventa sempre di più una fastidiosa parata di “te l’avevo detto”, ma la cui lettura permane indefettibilmente valida. Muta la fenomenologia dei pagliacci al governo, mutano gli effetti sanguinosi che si materializzano sulla schiena degli schiavi ormai segnata dalle nerbate, ma la faccia di bronzo dei sindacalisti permane sempre identica. Impassibili mummie a guardia del proprio orticello. L’ultimo pensiero che attraversa quei pochi grammi di materia grigia (cuore latitante, questo è ovvio) che galleggiano nella loro scatola cranica è per i propri interessi e per quelli dei capitalisti – messi a dura prova dai rudi assestamenti degli equilibri internazionali della finanza – non certo per quelli dei lavoratori. Quando il funerale di questi odiosi burocrati?
Trieste, 25 novembre 2011 Alfredo M. Bonanno ** Introduzione alla prima edizione II testo che segue è tratto dalla rivista americana “International Council Correspondence”, vol. II, n. 2 del gennaio 1936; fu redatto da Anton Pannekoek sotto lo pseudonimo di J. Harper. La rivista “I.C.C.” era l’organo di espressione dei comunisti dei consigli, che si erano rifugiati in America dopo la disfatta del movimento rivoluzionario e l’avvento del nazismo. Collaborarono a “I.C.C.” anche Karl Korsch, Paul Mattick, Otto Rühle e altri marxisti non leninisti che avevano vissuto e sostenuto l’esperienza consiliare tedesca, il KAPD, il partito olandese, non aderente all’Internazionale leninista. Contro di loro, Lenin scagliò i fulmini polemici in Estremismo, malattia infantile del comunismo. Il testo di Pannekoek – autore di Organizzazione rivoluzionaria e consigli operai – in sé non afferma cose eccezionali o aventi carattere di novità assolute, è valido per la lucida comprensione dei limiti intrinseci del sindacalismo, e riesce ad anticipare tendenze e manifestazioni che nei decenni successivi il sindacalismo ha effettivamente assunto. Sono riscontrabili anche ingenuità e impostazioni che non sono completamente nostre, ma che non ci interessa qui mettere in risalto. Nel valutare questo testo, non bisogna dimenticare l’anno in cui è stato pubblicato: il 1936. La valutazione critica in senso negativo del sindacalismo è netta, e ciò proprio quando – per esempio in Spagna – ci si attardava su posizioni teoriche che tendevano a fare del sindacato l’organo di gestione dell’economia e delle imprese liberate dalla presenza dei padroni. In sostanza si voleva “sindacalizzare” l’economia, quindi non appropriazione diretta e gestione dei lavoratori ma mediazione della struttura – ritenuta “neutra” – sindacale. La posizione di Pannekoek sul sindacato è nettamente divergente da quest’ultima, sono due posizioni che stanno a sottolineare come allora – ed oggi – il nodo sindacale, e la soluzione che se ne dà, discrimini posizioni che possono variare dalla compartecipazione alla gestione dell’economia capitalista all’assunzione di atteggiamenti e messa in campo di una pratica ad essa nettamente contrapposta e antagonista. Quel che ci interessa sottolineare oggi è che il sindacato è una istituzione perfettamente integrata e funzionale alla realizzazione della pianificazione capitalista, col compito specifico di “controllare” e cloroformizzare la classe. In quanto “rappresentante” della forza lavoro si sintonizza e compenetra con le esigenze del capitale nel ricomporre le forze – capitale e lavoro – che concorrono alla realizzazione dei profitti, per raggiungere equilibri sempre più stabili, beninteso sotto il segno della continuità della schiavitù salariale. Il sindacato è l’immagine distortamente riflessa della sfera dei bisogni economici dei salariati, ed esprime compiutamente l’essenza di merce del lavoratore salariato che si vende per realizzare altre merci. In quanto espressione reificata della riduzione dell’uomo a merce, e pretendendo di interpretare solo gli “interessi” economici, finisce col delegare tutti gli altri al “partito”: si riduce a contrattare il prezzo di vendita (e di acquisto) della forza-lavoro. La sua finalità non è l’abolizione del lavoro salariato, ma l’aggiornamento dei suoi costi. Una funzione – quindi – completamente interna al capitale e che stimola la sua continua razionalizzazione. II sindacalismo tende a fissare – perpetuandola – la funzione di salariato, e non opera minimamente nella direzione del superamento e della negazione dell’essere salariato per assumere identità, dignità e coscienza di proletariato, cioè di negatore pratico del capitalismo, del suo derivato sindacale, e di se stesso. Dire dello stato di intesa cordiale e di perfetto collaborazionismo del sindacalismo odierno con Stato e padroni nella camera delle corporazioni – è perfettamente inutile, perché è sotto gli occhi di tutti. Forse è più importante soffermarsi su come abbiano realizzato integralmente la loro essenza capitalistica, trasformandosi – in senso letterale – in strutture squisitamente capitalistiche quali le banche. È il caso della Germania e degli Stati Uniti, dove i sindacati gestiscono una serie di banche, e quindi: mercanteggiano, concedono prestiti, stabiliscono tassi di profitti, investono, speculano, ecc. Ha senso, oggi, riproporre una rigenerazione sindacale, fondare anarco-sindacati, o porsi come sinistra sindacale? Questi i problemi da dibattere. A nostro parere, riprodurre oggi una separazione organizzativa tra momento economico e politico, significa fare un balzo all’indietro rispetto ai livelli di autonomia proletaria degli ultimi anni. Non si può riprodurre alcuna separazione, pena il limitarsi a preferire o tentare di imitare la parte più fotogenica e presentabile del capitale, cioè il lato sinistro del suo viso (i sindacati). Quando invece si tratterebbe di dar vita ad organismi di base che, partendo dalla specificità della struttura sociale da cui sorgono, tendano ad esprimere una totalità di tensioni e bisogni, evitando di cristallizzare forme organizzative e pratiche di intervento. Travalicare il confine del perimetro produttivo entro cui si opera, unire il territorio e i problemi che su di esso il proletariato affronta con tutti gli altri bisogni sociali insoddisfatti. Tentare di ripercorrere la trama dei bisogni e dei conflitti che questi generano, legare in un momento di continuità di intervento e di complessività teorico-pratica fabbrica e territorio, momento anti-produttivistico e riappropriazione dei beni prodotti, unire l’attacco astrattamente “politico” all’asse dominante partiti-sindacati-Stato-capitale con la concretezza pratica dell’autoriduzione, dell’occupazione delle case, col rifiuto delle tasse e dello svuotamento dei salari, la richiesta di generalizzare il salario, massificare il reddito con la salarizzazione del lavoro domestico delle donne, la richiesta di occupazione con l’eliminazione delle forme paleo-capitaliste (di lavoro-nero, cottimo, lavoro a domicilio) unire la scuola col territorio, cioè la problematica dello studente con quella del disoccupato in cui sboccherà, ecc. Mettersi nel flusso dell’auto-organizzazione proletaria significa dar vita a cellule di antipotere perfettamente inserite nel tessuto sociale che propaghino l’azione cancerogena della negazione pratica dei rapporti e dei valori capitalisti: ideologia del lavoro, del profitto, dell’accumulazione, della divisione del lavoro, ecc. Oltreché l’immunizzazione delle strutture repressive e dei suoi pretoriani. Auto-organizzazione proletaria è partire dallo specifico di situazioni determinate per allargare il raggio di intervento pratico all’universalità delle funzioni e dei ruoli che i proletari devono ricoprire per riprodurre capitale (e la propria schiavitù) in cambio di un salario, cioè di una parte infinitesima di beni prodotti. In questo processo che tende alla totalità, è oltremodo pregiudizievole riproporre forme organizzative – quali il sindacato – che poggiano le proprie basi d’esistenza su di una divisione e limitazione: il momento economico e l’area della produzione, cioè il proletario solo nella fase della produzione. Evitare questa mutilazione significherebbe trovare un proprio posto nella rete degli organismi di anti-potere, e soprattutto cogliere il proletario come essere che non solo produce ma consuma, si aliena con la cultura, gli spettacoli e lo sport, che riproduce il capitale nella sua famiglia (ove lui è “padrone” e le mogli-figli i proletari della situazione), con la sessualità sempre stravolta e sublimata, che si alimenta con cibi con scarso valore nutritivo quando non del tutto nocivi, che vive nelle città della follia e dell’inquinamento, ecc. Si tratta di sviluppare un enorme intervento critico – teorico e poi pratico – esteso alla totalità delle condizioni esistenti. E ciò per poter cogliere il proletario nella sua interezza, senza privilegiare o l’economico, o il politico, o i “loisir” o il militare, o l’urbanistica, ecc. Confinarsi ed esaurire la propria funzione nella sfera economica, è il modo migliore per costringersi a rinunciare a tutto il resto, e riprodurre schemi e formule – simili ad animali impagliati – di un movimento proletario che si contrapponeva a un vecchio capitalismo, oggi mutatosi. È riproponibile l’anarco-sindacalismo? Tito Pulsinelli [Pubblicato su “Anarchismo” n. 12, novembre-dicembre 1976, pp. 353-355] ** Il sindacalismo In che modo la classe operaia deve lottare per trionfare sul capitalismo? Questa è la domanda che si pone ogni giorno ai lavoratori. Quali sono i mezzi d’azione efficaci e quali le tattiche che bisogna adottare per conquistare il potere e vincere il nemico? Non esiste alcuna scienza e nessuna teoria che possa loro indicare esattamente il cammino da seguire. È a tentoni, lasciando esprimere i loro istinti e la loro spontaneità, che essi troveranno la via. Più il capitalismo si sviluppa e si espande nel mondo e più s’accresce il potere dei lavoratori. Nuovi modelli d’azione più appropriati vanno ad aggiungersi ai vecchi. Le tattiche della lotta di classe devono necessariamente adattarsi all’evoluzione sociale. Il sindacalismo appare come la forma primitiva di movimento operaio in un sistema capitalista stabile. Il lavoratore indipendente è senza difesa di fronte al datore di lavoro capitalista. Per questo gli operai si sono organizzati nel sindacato che li riunisce nell’azione collettiva e utilizza lo sciopero come arma principale. L’equilibrio del potere è così più o meno realizzato; può accadere anche che sia favorevole agli operai, in modo che i piccoli padroni isolati si trovano impotenti di fronte alle grandi concentrazioni sindacali. È per questo che nei paesi in cui il capitalismo è più sviluppato, i sindacati operai e quelli padronali (associazioni, trust, società, ecc.) sono costantemente in lotta. In Inghilterra è nato il sindacalismo simultaneamente ai primi vagiti del capitalismo. Doveva poi propagarsi agli altri paesi come fedele amico del sistema capitalista. Conobbe particolari condizioni negli Stati Uniti dove la quantità di terre libere e disabitate disponibili ai pionieri, trascinò la manodopera fuori dalle città, e a causa di ciò, gli operai conquistarono salari elevati e condizioni di lavoro relativamente buone. La Federazione americana del lavoro rappresentò una vera forza nel paese, e fu spesso capace di garantire un livello di vita abbastanza elevato per gli operai che vi aderivano. In queste condizioni, l’idea di rovesciare il capitalismo non poteva germinare nella mente dei lavoratori americani. Il capitalismo offriva loro una esistenza stabile ed agiata. Non si consideravano come una classe particolare i cui interessi sono opposti a quelli dell’ordine esistente; ne erano – invece – parte integrante e consapevole di poter accedere a tutti i vantaggi che un capitalismo in pieno sviluppo – in un nuovo continente – poteva loro offrire. Vi era abbastanza posto per accogliere milioni di individui, in maggioranza europei. Bisognava offrire a questi milioni di contadini una industria in espansione nella quale gli operai, dando prova di buona volontà, potevano elevarsi anche a livello di liberi artigiani, piccoli uomini d’affari, o addirittura ricchi capitalisti. Non deve quindi sorprendere che la classe operaia americana sia stata impregnata di un autentico spirito capitalista. Così fu anche per l’Inghilterra che essendosi assicurata il monopolio del mercato mondiale, la supremazia sui mercati internazionali, e il possedimento di ricche colonie, doveva ammassare una considerevole fortuna. La classe capitalistica che non doveva lottare per difendere la sua quota di profitti, poteva accordare agli operai un livello di vita relativamente soddisfacente. Certo, ha anche dovuto subire qualche lotta prima di risolversi ad attuare queste concessioni, ma ben presto capì che solo autorizzando i sindacati e garantendo i salari si assicurava la pace nelle fabbriche. La classe operaia inglese, a sua volta, fu marcata dall’influenza dell’ideologia capitalista. Tutto ciò concorda appieno con la vera natura del sindacalismo, le cui rivendicazioni non vanno mai oltre il capitalismo. La finalità del sindacalismo non è quella di sostituire il sistema capitalista con un altro sistema di produzione, bensì di migliorare le condizioni di vita fermo restando il dominio capitalistico. L’essenza del sindacalismo non è rivoluzionaria ma conservatrice. L’azione sindacalista fa naturalmente parte della lotta di classe. Il capitalismo è fondato sull’antagonismo di classe in cui gli operai e i padroni hanno interessi opposti. Questo è vero non soltanto per ciò che concerne la conservazione del regime capitalistico, ma anche per quel che riguarda la ripartizione del prodotto nazionale lordo. I capitalisti tentano di accrescere i loro profitti – il plusvalore – diminuendo i salari e aumentando il numero delle ore o i ritmi di lavoro. Gli operai, invece, cercano di aumentare i loro salari e ridurre i loro orari. Il prezzo della loro forza-lavoro non è una quantità determinata, sebbene debba essere superiore al necessario a un individuo per non morire di fame; e il capitalismo non paga di buon grado. Questo antagonismo è così il generatore di rivendicazioni, e della vera e propria lotta di classe. Compito e ruolo dei sindacati è quello di continuare la lotta. Il capitalismo è stato la prima scuola d’apprendistato del proletariato, gli ha fatto apprendere che la solidarietà era al centro della lotta organizzata. Ha rappresentato la prima forma d’organizzazione del potere dei lavoratori. Questo carattere si è spesso fossilizzato nei primi sindacati inglesi e americani che degenerano in semplici corporazioni, evoluzione tipicamente capitalista. Non fu la stessa cosa nei paesi in cui gli operai dovevano battersi per la loro sopravvivenza, dove malgrado tutti i loro sforzi i sindacati non ottennero un miglioramento del livello di vita e nei quali il sistema capitalista in piena espansione usava tutta la sua forza per combattere i lavoratori. In questi paesi gli operai dovevano imparare che solo la rivoluzione poteva salvarli. Esiste dunque una differenza tra classe operaia e sindacati. La classe operaia deve guardare al di là del capitalismo, mentre il sindacalismo è confinato entro i limiti del sistema capitalista. Il sindacalismo non può rappresentare che una parte, necessaria ma infima, della lotta di classe. Sviluppandosi deve necessariamente entrare in conflitto con la classe operaia che vuole andare più lontano. I sindacati si potenziano a misura della crescita del capitalismo e della grande industria, fino a diventare gigantesche organizzazioni di migliaia di aderenti che si estendono su tutto un paese e con ramificazioni in ogni città e in ogni fabbrica. Vengono così nominati dei funzionari: presidenti, segretari, tesorieri, che dirigono gli affari e si occupano delle finanze, alla base come al vertice. Questi funzionari sono i dirigenti sindacali. Sono loro che conducono le trattative con i capitalisti, compito nel quale sono diventati maestri. Il presidente di un sindacato è un personaggio importante che tratta da pari a pari con il datore di lavoro, e discute con lui gli interessi degli operai. I funzionari sono degli specialisti del lavoro sindacale, mentre gli operai sindacalizzati, assorbiti dal loro lavoro di fabbrica, non potrebbero né giudicare né dirigere. Una tale organizzazione non è più una espressione operaia; essa forma un corpo organizzato con una sua politica, un suo carattere, una sua mentalità, delle sue tradizioni e delle sue funzioni specifiche. I suoi interessi differiscono da quelli della classe operaia; e non indietreggerà davanti ad alcuna lotta pur di poterli difendere. Semmai un giorno i sindacati dovessero perdere la loro utilità, non per questo scomparirebbero. I loro fondi, i loro aderenti, i loro funzionari, sono delle realtà che non scompaiono da un momento all’altro. I funzionari sindacali, i dirigenti del movimento operaio, sono i detentori degli interessi particolari dei sindacati. Malgrado le loro origini operaie, dopo lunghi anni di esperienza nella direzione dell’organizzazione, essi acquisiscono un nuovo carattere sociale. In ogni gruppo sociale che diventa sufficientemente importante per formare un gruppo a sé, la natura del lavoro modella e determina i modi di pensare e di agire. Il ruolo dei sindacalisti non corrisponde a quello degli operai. Non lavorano in fabbrica, non sono sfruttati dai capitalisti, non sono minacciati dalla disoccupazione. Sono impiegati in uffici con posti stabili. Discutono delle questioni sindacali, prendono la parola nelle assemblee di operai e negoziano con i padroni. Certo, essi devono pur stare dalla parte degli operai per difendere i loro interessi e le rivendicazioni contro i capitalisti. Nel fare questo, il loro ruolo non è molto diverso da quello di un avvocato di una qualunque organizzazione. Esiste tuttavia una differenza, poiché la maggior parte dei dirigenti sindacali, usciti dai ranghi della classe operaia, hanno fatto essi stessi l’esperienza dello sfruttamento capitalista. Essi si considerano parte integrante della classe operaia, il cui spirito di corpo è lungi dall’affievolirsi. Eppure il loro nuovo modo di vita tende a indebolire questa loro ancestrale tradizione. Sul piano economico, non possono più essere considerati dei proletari. Fiancheggiano i capitalisti, trattano con loro salari e orari di lavoro, ognuna delle due parti tenta di far valere i propri interessi, in definitiva rivaleggiano come due imprese capitalistiche. Imparano a conoscere il punto di vista dei capitalisti tanto bene quanto quello degli operai; le loro preoccupazioni sono gli interessi dell’industria e tendono a fare i mediatori. Possono esserci eccezioni a livello individuale, ma in generale, non possono avere gli stessi legami che hanno gli operai con la classe, questi ultimi non cercano di comprendere né valutare gli interessi dei capitalisti, ma lottano solo per i loro propri interessi. Conseguentemente, i sindacalisti entrano necessariamente in conflitto con gli operai. Nei paesi capitalisti avanzati, i dirigenti sindacali sono talmente numerosi da formare un gruppo a sé stante, con carattere e interessi separati. In quanto rappresentanti e dirigenti sindacali, essi incarnano il carattere e gli interessi dei sindacati. Poiché i sindacati sono intrinsecamente legati al capitalismo, i loro dirigenti si considerano come elementi indispensabili alla società capitalista. Le funzioni capitaliste dei sindacati consistono nel regolare i conflitti delle classi e assicurare la pace nelle fabbriche. Ne discende che i dirigenti sindacali considerano come loro dovere di cittadini quello di operare per la conservazione della pace nelle fabbriche, e di intromettersi nei conflitti. Essi non guardano mai al di là del sistema capitalista. Sono interamente al servizio dei sindacati e la loro esistenza è indissolubilmente legata alla causa del sindacalismo. Considerano i sindacati come organismi tra i più importanti per la società, come unica fonte di sicurezza e di potere; pertanto li difendono con tutti i mezzi. Concentrando i capitali in potenti imprese, i padroni si trovano in una posizione di forza nei confronti degli operai. I grossi papaveri dell’industria regnano come monarchi assoluti sugli operai che mantengono sotto il loro dominio, impedendo loro di aderire ai sindacati. Può accadere che questi schiavi del capitalismo insorgano contro i loro capi e scioperino, rivendicando migliori condizioni di lavoro, ritmi più bassi, diritto di organizzarsi. I sindacati corrono in loro aiuto. Ed è qui che i padroni fanno uso del loro potere politico e sociale. Espellono gli scioperanti, usano milizie e mercenari, imprigionano i loro rappresentanti, dichiarano illegali le casse di soccorso. La stampa padronale parla di caos, di sommosse, di rivoluzione, e monta l’opinione pubblica contro gli scioperanti. Dopo parecchi mesi di resistenza tenace e di eroiche sofferenze, esausti e delusi, incapaci di piegare le strutture d’acciaio del capitalismo, gli operai si arrendono, rimandando ad altri tempi le loro rivendicazioni. La concentrazione dei capitali indebolisce la posizione dei sindacati, anche nelle categorie in cui sono più forti. Nonostante la loro importanza, i fondi di sostegno agli scioperanti appaiono poca cosa di fronte alle risorse finanziarie dell’avversario. Una o due serrate bastano a estinguerli completamente. Il sindacato è allora incapace di lottare, anche in quei casi in cui il padrone decide di ridurre i salari e di aumentare le ore di lavoro. Non gli resta che accettare le condizioni sfavorevoli imposte dal padronato, e l’abilità a condurre trattative non è di alcun giovamento. A questo punto cominciano le grane perché gli operai vogliono lottare. Essi rifiutano di arrendersi senza lottare perché hanno poco da perdere ribellandosi. I dirigenti sindacali, invece, hanno molto da perdere: la forza finanziaria dei sindacati e magari anche la loro stessa esistenza. Essi tenteranno con tutti i mezzi di impedire una lotta che considerano senza sbocco. Cercheranno di “convincere” i lavoratori che è loro interesse accettare le condizioni del padronato. Tanto che in ultima analisi essi appaiono per quel che sono: portavoce dei capitalisti. La situazione è ancor più grave quando gli operai insistono nel continuare la lotta senza voler tener conto delle parole d’ordine sindacali. In questo caso, tutta la forza sindacale si ritorce contro i lavoratori. Il dirigente sindacale diviene così lo schiavo della sua funzione – mantenere la pace nelle fabbriche – e ciò a discapito degli operai, anche se pretende di difenderne nel migliore dei modi gli interessi. Poiché non può guardare al di là del sistema capitalista, ha ragione – dal suo punto di vista capitalista – di credere che la lotta è inutile. Questi sono i limiti del suo potere, ed è su questo che bisogna approfondire la critica. Esiste un altro sbocco? Gli operai possono sperare di vincere qualcosa con la lotta? È molto probabile che non otterranno delle soddisfazioni immediate, ma otterranno un’altra cosa, perché rifiutando di sottomettersi senza lotta, fomentano lo spirito di rivolta contro il capitalismo. Avanzano nuove rivendicazioni, e allora è di essenziale importanza che la totalità della classe operaia si sostenga. Devono dimostrare a tutti i lavoratori che per loro non c’è speranza all’interno del sistema capitalista, e che solo se sono uniti e, fuori dai sindacati, possono vincere. Da lì comincia la lotta rivoluzionaria. Quando tutti i lavoratori capiranno questa lezione, quando sciopereranno simultaneamente in tutti i settori dell’industria, quando un’onda di ribellione dilagherà nel paese, allora qualche dubbio sorgerà nei cuori arroganti dei capitalisti, i quali vedendo minacciata la loro potenza acconsentiranno a qualche concessione. Il dirigente sindacale non può capire questo punto di vista, poiché il sindacalismo non può guardare oltre il sistema capitalista. Non può che opporsi, quindi, a tale lotta che comporterebbe la sua scomparsa. Sindacati e padroni sono uniti dalla paura comune di una rivolta del proletariato. Quando i sindacati lottavano contro la classe capitalista per ottenere migliori condizioni di lavoro, questa li odiava ma non aveva la possibilità di distruggerli completamente. Se oggi i sindacati tentassero di risvegliare lo spirito combattivo della classe operaia, verrebbero perseguitati senza pietà dalla classe dirigente che ne reprimerebbe le azioni, manderebbe la sua milizia a distruggerne gli uffici, imprigionerebbe i dirigenti, li multerebbe, confischerebbe i fondi. Se, invece, i sindacati impedissero di lottare ai loro aderenti, verrebbero considerati dai padroni come istituzioni preziose, sarebbero protetti e i dirigenti considerati con la massima stima. I sindacati si ritrovano così combattuti fra due mali: da un lato le persecuzioni che sono una triste cosa per gente che vuol essere considerata “cittadini pacifici”; dall’altro la rivolta degli operai sindacalizzati che minaccia di scuotere l’organizzazione sindacale dalle fondamenta. Se la classe dirigente è avveduta, apprezzerà l’utilità di un simulacro di lotta, se vuole che i dirigenti sindacali conservino una certa influenza sulla base. Nessuno è responsabile di questi conflitti: sono la ineluttabile conseguenza dello sviluppo del capitalismo. Il capitale esiste, ma è incamminato verso la sua sconfitta. Deve essere combattuto sia come realtà vivente che come fase transitoria. Gli operai devono lottare senza tregua per ottenere salari più alti e migliori condizioni di lavoro, e prendere coscienza degli ideali comunisti. Si servono dei sindacati, che giudicano ancora necessari, cercando nello stesso tempo di migliorarli come strumenti di lotta. Ma non condividono lo spirito del sindacalismo che rimane essenzialmente capitalista. Le divergenze che oppongono il capitalismo alla lotta di classe sono oggi rappresentate dal fossato che separa lo spirito sindacalista, principalmente personificato dai dirigenti sindacali, e l’attitudine ogni giorno rivoluzionaria dei sindacalizzati. Questo fossato si evidenzia ogni volta che un problema politico e sociale si pone. Il sindacalismo è strettamente legato al capitalismo ed è durante i periodi di prosperità che più di frequente vede accettate le sue rivendicazioni salariali. Tanto che in periodo di crisi economica non può fare altro che sperare che il capitalismo riprenda il suo sviluppo. I lavoratori, in quanto classe, non si preoccupano affatto del buon andamento dell’economia capitalista. Infatti, solo quando il capitalismo è più debole essi hanno possibilità di attaccarlo, e di aggregare le loro forze per compiere il primo passo verso la libertà e la rivoluzione. II sistema capitalista estende il suo dominio all’estero, impadronendosi delle ricchezze naturali di altri paesi per suo esclusivo vantaggio. Conquista colonie, assoggetta le popolazioni primitive e le sfrutta senza esitare a perpetrare le peggiori atrocità. La classe operaia denuncia e lotta contro lo sfruttamento colonialista, mentre il sindacalismo sostiene spesso la politica colonialista, fonte di prosperità per il regime capitalista. Man mano che cresce il capitale, le colonie e i paesi stranieri divengono oggetto di massicci investimenti. Sono mercati per la grande industria e produttori di materie prime, pertanto assumono considerevole importanza. Per ottenere queste colonie, i grandi Stati capitalisti si abbandonano a lotte di influenza e procedono ad una vera spartizione del mondo. Le classi medie si lasciano trascinare in queste conquiste imperialistiche in nome del prestigio nazionale. Poi, a loro volta, i sindacati si allineano alle classi dirigenti con il pretesto che la prosperità del paese dipende dalle vittorie che si possono raggiungere nella lotta imperialista. In quanto a sé, la classe operaia non vede nell’imperialismo che un modo di rafforzare la potenza e la brutalità dei suoi oppressori. Queste rivalità di interessi fra nazioni capitaliste si trasformano in vere guerre. La guerra mondiale è il coronamento della politica imperialistica. Per i lavoratori, essa significa non solo la fine della solidarietà internazionalista, ma anche la forma di sfruttamento più violenta. Perché la classe operaia, lo strato più importante e più sfruttato della società, viene per prima colpita dagli orrori della guerra. Gli operai devono non solo fornire la loro forza lavoro ma anche sacrificare la loro vita. Eppure il sindacalismo, in periodo di guerra, non può che trovarsi a fianco del capitalismo. Ciò perché i suoi interessi sono legati a quelli del capitalismo. Non può che sperare nella vittoria di quest’ultimo. Si dedica dunque a risvegliare gli istinti nazionalisti e il campanilismo. Aiuta la classe dirigente a trascinare i lavoratori nella guerra ed a reprimere ogni resistenza. Il sindacalismo ha in orrore il comunismo, che rappresenta una minaccia permanente alla propria esistenza. In un regime comunista, non ci sono padroni né, di conseguenza, sindacati. Certo, nei paesi dove esiste un potente movimento socialista, e dove la grande maggioranza dei lavoratori sono socialisti, i dirigenti del movimento operaio devono anch’essi essere socialisti. Ma si tratta di socialisti di destra che si limitano a desiderare una repubblica nella quale onesti dirigenti sindacali, verrebbero a sostituire i capitalisti assetati di profitti, nella conduzione della produzione. II sindacalismo ha in orrore la rivoluzione che sconvolge i rapporti fra padroni e operai. Nel corso di scontri violenti, la rivoluzione spazza via regolamenti e convenzioni che reggono il lavoro; davanti all’enorme spiegamento di forza, i modesti talenti da negoziatori dei dirigenti sindacali, vengono superati. Ecco perché il sindacalismo mobilita tutte le sue forze per opporsi alla rivoluzione e al comunismo. Questo atteggiamento è pieno di significati. Il sindacalismo costituisce una vera potenza. Dispone di fondi considerevoli, e di un prestigio morale accuratamente sviluppato nelle sue varie pubblicazioni. Questa potenza è concentrata nelle mani dei dirigenti sindacali che ne fanno uso ogni volta che gli interessi particolari dei sindacati entrano in conflitto con quelli dei lavoratori. Benché sia sorto tra gli operai e per gli operai, il sindacalismo domina i lavoratori, nello stesso modo in cui il governo domina il popolo. II sindacalismo varia secondo i paesi e secondo la forma di sviluppo del capitalismo. Può anche avere forme mutevoli all’interno dello stesso paese. Succede che alcuni sindacati si indeboliscono e che la combattività operaia riesca a ridar loro vita, e magari anche a trasformarli radicalmente. In Inghilterra, negli anni 1880-1890, un “nuovo sindacalismo” e così sorto, proveniente dalle masse più povere, dai portuali e altri lavoratori non specializzati e sotto-pagati, ringiovanendo le strutture sclerotizzate dei vecchi sindacati. L’aumento del numero dei lavoratori manuali che vivono in condizioni lamentevoli è una delle conseguenze dello sviluppo del capitalismo che crea continuamente nuove industrie e sostituisce i lavoratori specializzati con le macchine. Quando questi lavoratori ridotti allo stremo, si rivoltano e scioperano, acquisiscono finalmente una coscienza di classe. Rimodellano le strutture del sindacato in maniera più adeguata alle forme più avanzate del capitalismo. Certo, quando il capitalismo supera questa soglia, il nuovo sindacalismo non può sfuggire alla sorte che tocca ad ogni forma di sindacalismo, ed esso riproduce al suo interno le stesse contraddizioni. II nuovo sindacalismo si è particolarmente sviluppato in America con gli I.W.W. (Industrial Workers of the World), nato da due forme specifiche dello sviluppo del capitalismo. Nelle vaste regioni di foreste e pianure dell’Ovest, i capitalisti si impadronirono delle ricchezze naturali con metodi brutali ai quali gli operai risposero con la violenza. Invece all’Est degli Stati Uniti, l’industria andava sviluppandosi basandosi sullo sfruttamento di milioni di poveri immigrati, provenienti da paesi a basso livello di vita e che furono sottoposti a condizioni miserevoli di lavoro. Per lottare contro lo spirito strettamente corporativo del vecchio sindacalismo americano – Federazione americana del lavoro, che divideva gli operai di una stessa fabbrica in diversi sindacati – gli I.W.W. proposero che tutti gli operai di una stessa fabbrica si unissero contro il padrone all’interno di un unico sindacato. Condannando le rivalità meschine che dividevano i sindacati fra di loro, gli I.W.W. richiedevano la solidarietà di tutti i lavoratori. Quando gli operai specializzati, pagati bene, guardavano con disprezzo i nuovi immigrati disorganizzati, gli I.W.W. si indirizzarono proprio a queste frange povere del proletariato per trascinarle nella lotta. Essi erano troppo poveri per pagare le quote elevate per aderire ai sindacati tradizionali. Ma quando si rivoltarono e si misero in sciopero, furono gli I.W.W. ad insegnare loro a lottare, a raccogliere i fondi di soccorso in tutto il paese, a difendere la loro causa nella stampa e nei tribunali. Ottenendo tutta una serie di vittorie riuscirono ad immettere, nel cuore di queste masse, lo spirito di organizzazione e di responsabilità. E mentre i vecchi sindacati puntavano sulla loro ricchezza finanziaria, gli I.W.W. si appoggiarono alla solidarietà, all’entusiasmo e alle capacità di resistenza dei lavoratori. Al posto della struttura rigida dei vecchi sindacati, gli I.W.W. proposero una forma di organizzazione elastica, di consistenza diversa a seconda della situazione, cioè di organico ridotto in tempi di pace, ed aumentato nei periodi di lotta. Rifiutando lo spirito conservatore e capitalista del sindacalismo americano gli I.W.W. sceglievano la rivoluzione. I loro aderenti furono perseguitati senza pietà dall’insieme delle istituzioni capitaliste. Furono imprigionati e torturati sulla base di false accuse. II diritto americano inventò un nuovo delitto: il “criminal syndacalism”. In quanto metodo di lotta contro la società capitalista, il sindacalismo non può da solo bastare a rovesciare questa società e conquistare il mondo per i lavoratori. Combatte il capitalismo sotto la sua forma padronale, nel settore economico della produzione, ma non può attaccare la sua fortezza politica, il potere statale. Tuttavia gli I.W.W. sono stati, fino ad allora la forma di organizzazione più rivoluzionaria in America. Hanno contribuito più di ogni altro a risvegliare la coscienza di classe, la solidarietà e l’unità del proletariato, ad esaltare il comunismo e ad affilare le armi della lotta. II sindacalismo non avrà ragione del capitalismo. Questa è la lezione che si deve trarre da ciò che precede. Le vittorie che esso può ottenere sono soluzioni di breve durata. Ma queste lotte sindacali sono ancora essenziali e dovranno proseguire fino alla vittoria finale. L’impotenza del sindacalismo non ha nulla di sorprendente, perché se un gruppo isolato di lavoratori può apparire in un giusto rapporto di forza quando si oppone ad un padrone isolato, è impotente davanti all’insieme della classe capitalista. Ed è ciò che succede nel caso presente: il poter statale, la potenza finanziaria del capitalismo, l’opinione pubblica borghese, la virulenza della stampa capitalista, concorrono a vincere il gruppo di lavoratori combattivi. Quanto all’insieme della classe operaia essa non si sente coinvolta nella lotta con un gruppo di scioperanti. Certo, le masse dei lavoratori non sono mai ostili ad un sciopero, possono anche fare collette per sostenere gli scioperanti, a condizioni che non siano proibite da un ordine del tribunale. Ma questa simpatia non va molto oltre: gli scioperanti rimangono soli, mentre milioni di lavoratori li osservano passivi. E la lotta non può essere vinta (salvo in casi particolari, quando il padronato decide, per sue ragioni economiche, di soddisfare le rivendicazioni) fin quando l’insieme della classe operaia non sarà unita nella lotta. La situazione è differente quando i lavoratori si sentono direttamente coinvolti nella lotta, quando capiscono che il loro avvenire è in gioco. Dal momento in cui lo sciopero si generalizza alla totalità delle industrie, il potere capitalista deve affrontare il potere collettivo della classe operaia. Si è spesso detto che l’estendersi dello sciopero e la sua generalizzazione all’insieme delle attività di un paese, era il mezzo più idoneo per assicurarsi la vittoria. Ma non bisogna veder sempre in questa tattica uno schema pratico di successo utile in ogni momento. Se fosse così, il sindacalismo l’avrebbe sempre utilizzato. Lo sciopero generale non può essere decretato secondo l’umore dei dirigenti sindacali, come una tattica di routine. Non può nascere che dalle viscere della classe operaia, come espressione della sua spontaneità, e non può avvenire che quando la posta della lotta supera ampiamente le semplici rivendicazioni di un solo gruppo. I lavoratori, allora, impiegheranno veramente tutte le loro forze, il loro entusiasmo, la solidarietà e la capacità di resistenza nella lotta. Ed avranno bisogno di tutte le loro forze, perché il capitalismo mobiliterà tutte le forze a sua disposizione. Il capitale potrà essere colto di sorpresa dall’improvvisa dimostrazione di potenza del proletariato, e vedersi obbligato – sulle prime – a fare concessioni. Ma non sarà che un ripiegamento temporaneo. La vittoria del proletariato non è né certa né durevole. Il suo cammino non è tracciato chiaramente, deve piuttosto districarsi nella giungla capitalista, anche a prezzo di sforzi immani. Tuttavia ogni vittoria anche modesta, è un progresso. Perché provoca una vasta solidarietà operaia: le masse prendono coscienza della potenza della loro unità. Attraverso l’azione, i lavoratori comprendono che cos’è il capitalismo, e la loro posizione rispetto alla classe dirigente. Cominciano ad intravedere il cammino della libertà. La lotta esce così dal ristretto dominio del sindacalismo per spaziare nel vasto campo della lotta di classe. Tocca ai lavoratori cambiare se stessi. Devono allargare la loro concezione del mondo e guardare al di là dei muri della fabbrica, verso la totalità della società. Devono sapersi elevare al di sopra delle meschinità che li circondano, e affrontare lo Stato. Accedono, allora, al regno della politica. È venuto il tempo di pensare alla rivoluzione.
[Pubblicato su “Anarchismo” n. 12 , novembre-dicembre 1976, pp. 346-353] ** Appendice *** Oltre l’operaismo e il sindacalismo.
La fine del sindacalismo corrisponde alla fine dell’operaismo Per noi è anche la fine dell’illusione quantitativa del partito e dell’organizzazione specifica di sintesi. La rivolta di domani prenderà nuove strade. II sindacato è sulla via del suo triste tramonto. Nel bene come nel male con questa forma strutturale di lotta tramonta un’epoca, un modello e un mondo futuro, visto in termini di riproduzione (migliorata e corretta) del mondo presente. Ci avviamo verso nuove e profonde trasformazioni. Nella struttura produttiva, nella struttura sociale. Si trasformano anche i metodi di lotta, le prospettive, gli stessi progetti a medio termine. Ad una società industriale in espansione si addiceva lo strumento sindacale che da strumento di lotta divenne, ben presto, strumento di sostegno della stessa struttura produttiva. Anche il sindacalismo rivoluzionario fece la sua parte: spingendo avanti le componenti più combattive del movimento operaio ma, nello stesso tempo, spingendole indietro come capacità di pensare la società del futuro, i bisogni creativi della rivoluzione. Tutto restava impacchettato all’interno della dimensione di fabbrica. L’operaismo non è stato soltanto un luogo comune del comunismo autoritario. L’individuare luoghi privilegiati dello scontro di classe è ancora oggi una delle più radicate abitudini che non si riesce a spostare. Fine del sindacalismo, dunque. Sono ormai [1975-1986] più di quindici anni che facciamo questo discorso. Una volta sollevavamo critiche e sbalordimenti, specialmente quando abbiamo accomunato nella stessa valutazione negativa anche l’anarcosindacalismo. Oggi siamo più facilmente accettati. In fondo, chi non è critico nei riguardi del sindacalismo? Tutti, o quasi tutti. Solo che ci si dimentica delle connessioni. La nostra critica del sindacalismo era anche critica del metodo “quantitativo”, che ha tutte le caratteristiche del partito in “nuce”; era anche critica delle organizzazioni specifiche di sintesi (ad esempio – per certi aspetti – della F.A.I. di oggi e di ieri); era anche critica del perbenismo di classe, mutuato dalla borghesia e filtrato, attraverso i luoghi comuni della cosiddetta morale proletaria, fino a noi. Tutto ciò non può essere messo da parte. Se oggi sono molti i compagni che convengono con noi nella nostra ormai tradizionale critica del sindacalismo, sono ancora pochi quelli che condividono tutte le conseguenze che da questa critica derivano. Nel mondo della produzione possiamo intervenire solo attraverso strumenti che non si pongono nella prospettiva quantitativa e quindi non possono pretendere di avere alle spalle organizzazioni specifiche anarchiche che lavorano all’ipotesi della sintesi rivoluzionaria. Ciò comporta un diverso metodo di intervento, quello che costruisce “nuclei” di fabbrica, o “nuclei” zonali e che si limita a mantenere i contatti con una struttura specifica, esclusivamente di affinità. Dal rapporto tra struttura specifica e nuclei di base viene fuori un nuovo modello di lotta rivoluzionaria che si prefigge l’attacco alle strutture del capitale e dello Stato attraverso il ricorso ad una metodologia insurrezionale. Questa impostazione consente di seguire meglio le profonde trasformazioni che si stanno realizzando nella struttura produttiva. La fabbrica sta per scomparire, nuove organizzazioni produttive la sostituiranno, basate principalmente sull’automazione. Gli operai di ieri verranno integrati (parzialmente) in una realtà di supporto (servizi) o semplicemente in una situazione a breve termine assistenziale e a lungo termine di semplice sopravvivenza. Nuove forme di lavoro si profilano all’orizzonte. Il fronte operaio classico, di già, non esiste più. Il sindacato, ovviamente, pure. Almeno non esiste nelle forme nelle quali lo abbiamo conosciuto noi. Diventerà una specie di holding produttiva di consenso sociale. Una ditta come qualsiasi altra. Una rete di rapporti sempre diversi, tutti all’insegna della partecipazione, del pluralismo, della democrazia, dell’assemblearismo, ecc., si stenderà sulla società, imbrigliando (quasi) tutte le forze della sovversione. Gli aspetti estremi del progetto rivoluzionario saranno criminalizzati sistematicamente. Ma la rivolta prenderà nuove strade, si infiltrerà attraverso mille nuovi canali sotterranei, emergerà in centomila scoppi improvvisi di cieca rabbia, di distruzione apparentemente priva di scopo, di nuove e incomprensibili simbologie. Dovremo fare attenzione, noi portatori, spesso, di dolorose e pesanti ipoteche che ci vengono dal passato, dobbiamo fare attenzione a non restare tagliati fuori da un fenomeno che finiremo per non comprendere e la cui violenza potrebbe, un cattivo giorno, farci anche paura. E per prima cosa dobbiamo fare attenzione sviluppando, senza infingimenti, fino in fondo la nostra analisi critica. Alfredo M. Bonanno [Pubblicato su “Anarchismo” n. 52, maggio 1986, p. 3]