#author Alfredo M. Bonanno #title Chiusi a chiave. Una riflessione sul carcere #date 2013 #lang it #cat geo #uid amb-chiusi-a-chiave #notes Prima edizione: nel libro Affinità e organizzazione informale, Catania 1996, pp. 116-134
Seconda edizione: Allaria edizioni, Paris 1997
Terza edizione: aprile 2007
Quarta edizione: novembre 2013
Testo della conferenza sul carcere tenuta nel marzo del 1993 presso il Laboratorio anarchico di via Paglietta a Bologna.
Opuscoli provvisori n. 8 Dedichiamo questo opuscolo a tutti i compagni anarchici prigionieri ** Prefazione Il testo che qui pubblichiamo è la sbobinatura di una conferenza sul carcere – tenutasi nel marzo 1993 presso il Laboratorio anarchico di via Paglietta a Bologna – già pubblicata nel libro Affinità e organizzazione informale delle Edizioni Anarchismo. Tale conferenza viene qui ripresentata con poche correzioni dell’autore e una sua Nota introduttiva scritta nel carcere di Rebibbia, dove attualmente [1997] si trova prigioniero insieme a molti altri anarchici. I motivi che ci hanno spinto alla pubblicazione sono diversi. Innanzitutto il valore degli argomenti esposti, che condividiamo, e in particolare della tesi principale che è quella della necessità della distruzione del carcere. È infatti prerogativa degli anarchici quella di desiderare un mondo senza alcun tipo di prigione e di interpretare questo desiderio nel senso dell’attacco, della distruzione del carcere in un’ottica rivoluzionaria. Perché siano liberi tutti, nessuno escluso. Inoltre il carcere è una realtà che ci è, soprattutto oggi, sgradevolmente vicina, vista la notevole spinta repressiva che sta colpendo molti anarchici in tutta Italia, in particolare in relazione alla vicenda Marini: una macroscopica montatura giudiziaria (ma non è la stessa Giustizia una enorme, tragica montatura?) che vede in questo momento tanti compagni detenuti e alcune decine di anarchici rischiare moltissimi anni di carcere. Ma, al di là della grave contingenza, questa pubblicazione vorrebbe essere uno spunto rivolto agli anarchici in particolare, perché si riapra un dibattito sul problema carcere, dibattito che si è negli ultimi tempi affievolito e che invece a nostro giudizio è bene riprendere per dotarci di strumenti teorico-pratici non scontati, per attuare un progetto offensivo nei confronti della prigionia. Uno dei pregi dell’analisi di Alfredo nella sua critica alle tesi abolizioniste è proprio quello di collocare il carcere all’interno di un tessuto relazionale organico, ovvero di rendersi conto che non possiamo capire, criticare e quindi attaccare il carcere se lo consideriamo come una cosa a sé, un’entità isolata slegata dal resto del mondo, dalla società e da noi. Se lo vediamo solo come una fortezza esso rimarrà inespugnabile. Apparentemente il carcere è il luogo fisico dove viene rinchiusa la vita di migliaia di individui, limitandone all’interno di sorvegliatissime e spesse mura le possibilità e le modalità di movimento per un determinato tempo. Ma il carcere non è solo questo, non è solo il confine ultimo della società dove si può entrare solo come carcerati o carcerieri. Non è solo il lato buio del nostro modo di vivere, quel ripostiglio inaccessibile ai nostri sguardi di buoni cittadini, dove vengono riposti gli scarti o i nemici di questo nostro bel vivere insieme a quegli antipatici ma necessari strumenti atti a far pulizia. Il carcere è la struttura dove prende corpo il concetto di pena, è l’architetto che lo progetta, è l’azienda che lo costruisce, è la legge che lo ratifica, è il tribunale che lo introduce, è il carabiniere che ti ci conduce, è il secondino che ti sorveglia, è il prete che vi tiene messa, è lo psicologo che vi presta la propria opera. È questo e altro ancora. È l’azienda che sfrutta il lavoro dei detenuti. È quella che si arricchisce fornendo il rancio, le suppellettili, le attrezzature di controllo, i beni “voluttuari” che i prigionieri possono acquistare a carissimo prezzo, magari facendo lavori che hanno lo scopo di reinserirli nella società dei servi e dei padroni. Il carcere è anche il professore che lo giustifica, è il riformatore che lo vuole più umano, è il giornalista che ne tace le condizioni, è il cittadino che lo ignora o lo teme. Così come è carcerata quella volontà che subisce la prigione come inevitabile limite di ogni società possibile, persino di una “liberata”. Quella volontà che attende sempre che altri in sua vece risarciscano i torti e facciano giustizia, che si volta rassegnata dall’altra parte di fronte ad un orrore di cui si riconosce responsabile. Perché questo orrore ci riguarda tutti e ce ne potremo liberare soltanto liberando tutti: distruggendo ogni carcere definitivamente.
Maggio 1997 Edizioni Allaria ** Nota introduttiva Il carcere è la struttura portante della società in cui viviamo. Spesso non sembra ma è così. Una società progressista, educatrice, permissiva, una società che si lascia guidare da politici illuminati, contrari ad ogni ricorso alla maniera forte, una società che guarda scandalizzata ai massacri più o meno lontani che costellano la carta geografica del mondo, questa società che sembra abitata da tanti cittadini per bene attenti solo a non danneggiare il verde e a pagare il minimo possibile di tasse, questa stessa società che si crede lontana dalla barbarie e dall’orrore, ha il carcere alle porte. Ora, l’esistenza stessa di un luogo dove uomini e donne vengono tenuti chiusi in gabbie di ferro opportunamente attrezzate, guardati a vista da altri uomini e da altre donne che stringono in mano una chiave, un luogo dove gli esseri umani trascorrono anni e anni della loro vita senza fare niente, assolutamente niente, è il massimo segno dell’infamia non solo per questa società ma per tutta un’epoca storica. Scrivo questa Nota introduttiva nel carcere di Rebibbia e non mi sento di modificare nulla della conferenza da me fatta a Bologna alcuni anni fa. Niente è infatti cambiato, commisurando l’attuale ottusità delle istituzioni carcerarie con le mie passate esperienze descritte, in parte, nel testo qui pubblicato. Niente poteva cambiare. Il carcere è un bubbone che la società cerca di nascondere senza riuscirci. Come i medici del Seicento che curavano la peste mettendo unguenti sui bubboni ma lasciando che i ratti scorazzassero fra le immondizie, così i nostri tecnici di oggi, a tutti i livelli delle gerarchie carcerarie, cercano di mettere coprivergogne per nascondere questo o quell’aspetto più orribile del carcere, senza riflettere che l’unico modo per affrontare il carcere è quello di distruggerlo. Distruggerlo senza che di esso rimanga pietra su pietra, e non come l’umanità a volte ha fatto con le costruzioni che nella sua storia hanno contrassegnato le infamie più atroci, lasciando qualche rudere a perenne ricordo. Ma chi è abituato a starnazzare nell’aia spesso si chiede: è mai possibile distruggere il carcere? È mai possibile farlo scomparire del tutto in una società come la nostra in cui una congrega di dominanti chiamata Stato sceglie per tutti e impone queste scelte con la forza? Ed è così che i migliori fra questi starnazzatori, cioè i più buoni di cuore e agili d’ingegno, cercano di mitigare le sofferenze dei carcerati dando loro il cinema una volta la settimana, la televisione a colori, un vitto quasi decente, un colloquio settimanale, la speranza di uscire prima del giorno della propria fine pena e tutto il resto. Certo, in contropartita, questa brava gente vuole qualcosa. Dopo tutto si tratta di poca cosa. Vuole che i carcerati si comportino bene, siano rispettosi verso gli agenti di custodia, acquistino una sufficiente capacità di resistere ad anni di ozio e di astensione sessuale, si sottopongano ad un trattamento psicologico da parte di personale specializzato e dichiarino, in una forma più o meno velata, di essere redenti e in grado di tornare nella società che li ha espulsi per il loro cattivo comportamento. Io che frequento il carcere da più di un quarto di secolo posso fare un piccolo confronto. Una volta il carcerato viveva letteralmente in un buco infame e infetto, visitato da topi e vari animali, vedeva la luce del giorno per pochi minuti, non aveva la televisione e non poteva neanche farsi un caffè in cella. Oggi la situazione è senza dubbio migliorata. Il carcerato può fare dei veri e propri pranzi in cella, perfino i dolci, ha più ore d’aria giornaliera di quante ne faceva una volta in un mese, può avere colloqui aggiuntivi, qualche telefonata ai suoi familiari, lavorare con uno stipendio decente (la metà di quello di un operaio medio che lavora fuori), godere della televisione a colori, del frigorifero, della doccia e di tutto il resto che si sta diffondendo in quasi tutte le carceri. Ma può egli dire di stare meglio di una volta? Certo che lo può dire. Ma la sera, quando si avvicina l’ora più tenera del giorno, quando il proprio cuore vorrebbe essere altrove, alle sensazioni e agli affetti ormai perduti, quando sente stridere nella toppa della cella la chiave dell’infamia, la sua condizione è sempre la stessa. E l’orrore che emana da una condizione del genere, da un essere umano chiuso in una cella a chiedersi senza risposta del senso della vita, questo orrore non ricade su tutta la società? Possibile che gli starnazzatori ultrarealisti non se ne siano accorti? Certo, i carcerati accettano questi miglioramenti, non sono mica stupidi, ed è giusto che sia così, ed accettano di pagare la contropartita, di mostrarsi buoni e accondiscendenti, di litigare il meno possibile con le guardie e di raccontare favole agli educatori e agli psicologi che come ombre si aggirano nei corridoi, in attesa dell’ora di tornare a casa e della fine mese per incassare lo stipendio. A parte il fatto, evidente, di un abbassarsi del livello dello scontro in carcere, qui nessuno crede all’inserimento del carcerato nella società cosiddetta civile, né gli assoggettanti, né gli assoggettati. È una commedia dell’arte che ognuno recita magnificamente senza copione. Prendiamo, per esempio, il prete. Egli sa benissimo, se non è uno stupido, che tutti i detenuti che vanno a messa ci vanno per incontrarsi con altri detenuti di altri bracci che non possono vedere altrimenti. Eppure accetta la realtà con l’ipocrisia del suo mestiere e tira a campare. Certo, qualche volta c’è un detenuto che manifesta una fede repentina, un’illuminazione sulla via di Damasco, ma questo il prete lo sa benissimo, è funzionale al trattamento per uscire in semilibertà o per avere la sospensione pena o un altro dei cento benefici previsti dalla legge ma subordinati alla decisione del personale di custodia, degli educatori, degli psicologi e perfino del prete. Quello che fuori era chiarezza nei riguardi dello sbirro, qui dentro è diventato confuso. I carcerati di oggi nella loro quasi totalità, stanno perdendo la propria identità di carcerato, stanno accettando un cambiamento permissivo e possibilista che li ingloba a poco a poco all’interno di un meccanismo che promette non tanto di redimerli quanto di farli uscire un poco prima della loro fine pena. Come il lettore attento di questo libretto potrà vedere, esiste una corrente di pensiero che si vanta di volere “abolire” il carcere. Ora, abolire significa ablare, cioè togliere dalla società una sua componente essenziale, il carcere. Lasciando la società così com’è, questa abolizione è impossibile o, nel caso dovesse mettersi in moto, la stessa abolizione dovrebbe tornare utile al dominio. Cerchiamo di approfondire questo punto. L’unico modo per fare qualcosa di serio nei confronti del carcere è quello di distruggerlo. Ciò non è più assurdo, né più utopico della tesi che vorrebbe abolirlo. Lo Stato, per cui il carcere è essenziale, ricorrerebbe a misure estreme sia nel caso della distruzione che in quello dell’abolizione. Però, condizioni specifiche di carattere rivoluzionario potrebbero rendere possibile la distruzione del carcere, potrebbero provocare tali sconvolgimenti nella realtà sociale e politica da fare diventare realtà questa utopia a causa della improvvisa, o progressiva, mancanza di poteri in grado di imporre l’esistenza del carcere. Nel caso dell’abolizione, se essa si mette in moto in maniera progressiva, vuol dire che lo Stato sta pensando di provvedere diversamente al problema del carcere. In effetti, qualcosa in questo senso si sta muovendo. Come faccio vedere nel testo che segue, è in corso una grande apertura del carcere, le forze politiche esterne che una volta erano tagliate fuori, oggi vengono fatte entrare in carcere con mille espedienti, ci sono iniziative culturali di ogni genere (cinema, teatro, pittura, poesia, insomma tutti i settori della cultura sono al lavoro). Questa apertura sollecita una partecipazione dei detenuti. Partecipare sembra, sulle prime, eliminare le disparità, permettere a tutti un livello di eguaglianza, impedire che si resti confinati in cella, parlare, fare sentire i propri diritti. E questo è vero, e in tale direzione il “vecchio” carcere è stato sostituito dal “nuovo”. Ma non tutti i detenuti sono disponibili a partecipare. Alcuni hanno una propria dignità di “fuorilegge” e non vogliono essere espropriati, quindi non vogliono partecipare. Non sto qui riproponendo la vecchia distinzione tra detenuti “politici” e detenuti “comuni”, che non mi ha mai convinto del tutto. Personalmente ho sempre rifiutato – e continuo a farlo anche ora nel carcere in cui sto scrivendo questa Nota introduttiva – l’etichetta di detenuto “politico”, ma mi sto riferendo ai “fuorilegge”, a coloro cioè che hanno una vita dedicata totalmente a vivere contro o al di là delle condizioni fissate dalla legge. È chiaro che se il carcere si apre da un lato ad alcuni detenuti disposti a partecipare, si chiude nei riguardi di quelli che volendo restare “fuorilegge” anche in carcere non sono disposti a partecipare. Se a questa distinzione si aggiunge l’aumento del controllo nella società, l’avvento delle potenzialità telematiche, la centralizzazione dei servizi di sicurezza e di polizia a livello se non altro europeo, si arriva alla conclusione che ad andare contro le leggi, in un futuro più o meno prossimo, saranno solo coloro che avranno veramente la determinazione assoluta del fuorilegge. Si può concludere pertanto che il progetto del nuovo dominio è quello di abolire il carcere tradizionale aprendolo alla partecipazione, ma di creare nel contempo un nuovo tipo di carcere, chiuso in maniera assoluta, un carcere con il camice bianco dove i veri fuorilegge finiranno i loro giorni. E questo il carcere del futuro, e i teorici dell’abolizione del carcere saranno accontentati, in quanto le carceri col camice bianco potranno in futuro non avere più questo nome odioso, ma diventare cliniche per malati mentali. Chi si intestardisce nella ribellione e nell’affermare la propria identità di “fuorilegge”, contro ogni proposta partecipativa del potere, non è egli forse un pazzo? E i pazzi, non costituiscono essi forse un problema medico piuttosto che penitenziario? Una società del genere, più forte come capacità di controllo sociale e politico, chiamerebbe tutti a collaborare a questo progetto repressivo, e quindi avrebbe una minore necessità di ricorrere alle condanne. Il concetto stesso di pena potrebbe essere rivisto. In fondo, oggi, la maggior parte della popolazione carceraria è costituita da persone che hanno commesso reati che da un momento all’altro potrebbero non essere più tali: uso di sostanze stupefacenti, commercio delle stesse, piccoli furti, reati amministrativi, ecc. Togliendo queste persone dal carcere e riducendo le possibilità dei reati più seri, come ad esempio le rapine e i sequestri di persona, che con un controllo del territorio com’è quello in progetto diventeranno quasi impossibili, restano pochi reati veri e propri. Quelli di natura passionale potrebbero benissimo, ed è questa l’intenzione, essere controllati con il ricorso alla detenzione domiciliare. E allora, in queste condizioni, chi resterebbe in carcere? Quelle poche migliaia di individui che non vogliono accettare questo progetto, che odiano una società del genere, che odiano obbedire e subire, insomma i ribelli coscienti di esserlo, che continueranno ad attaccare, forse contro ogni logica, e nei riguardi dei quali sarà possibile applicare le condizioni specifiche di detenzione e di “cura” più vicine a quelle di un manicomio che di un carcere vero e proprio. Ecco dove porta, a stringere le premesse logiche, la tesi dell’abolizione del carcere. Lo Stato potrebbe essere, in futuro, uno dei sostenitori di questa tesi. Il carcere è l’espressione più brutale e immediata del potere e come il potere va distrutto, non può essere progressivamente abolito. Chi pensa di poterlo migliorare per poi distruggerlo ne rimane prigioniero per sempre. Il progetto rivoluzionario degli anarchici è quello di lottare insieme alla gente per farla insorgere contro ogni sopruso e ogni repressione, quindi anche contro il carcere. Quello che muove gli anarchici è il desiderio di un mondo migliore, di una vita migliore, di una dignità e di una morale che l’economia e la politica hanno distrutto. In questa società non può esserci posto per il carcere. È per questo che gli anarchici fanno paura. È per questo che vengono rinchiusi in carcere.
Carcere di Rebbibia, 20 marzo 1997 Alfredo M. Bonanno ** Chiusi a chiave. Una riflessione sul carcere Voici le temps des Assassins. Rimbaud Il discorso sul carcere è un discorso che il movimento rivoluzionario e i compagni anarchici fanno da tanto tempo e che periodicamente ritorna, perché, per molti di noi, costituisce un problema che ci tocca direttamente o tocca compagni che ci sono vicini, cui siamo affezionati. Conoscere com’è il carcere e perché esiste e funziona, o come potrebbe non esistere, oppure funzionare meglio, a seconda dei punti di vista, è senza dubbio un fatto interessante. In passato ho ascoltato molti discorsi, conferenze, dibattiti, specialmente una diecina di anni fa, in epoca in cui vigeva, dominava, un modo analitico di considerare la realtà gestito da un certo marxismo culturalmente e praticamente padrone della scena politica, e il punto centrale di questi dibattiti era “la professionalità” di chi si esprimeva sul carcere. Normalmente si ascoltava, o si immaginava di ascoltare, qualcuno che sapeva cosa dire sul carcere. Ecco, non è il mio caso: io, in effetti, non so molto sul carcere, non ho coscienza di sapere molte cose sul carcere, perché non sono né un professionista dei problemi del carcere e nemmeno uno che in fondo in fondo l’ha sofferto molto, ... qualcosa, questo sì. Quindi, se siete interessati a quel modo di vedere le cose, cioè ad un’angolatura di tipo professionale, non aspettatevi molto da questa conferenza sul carcere. Più che altro quello che dirò è costituito da impressioni personali, qualche piccolo approfondimento delle tematiche correnti sul problema carcerario. Nessuna professionalizzazione, nessuna competenza specifica. Dico subito che ho una specie di ripulsa, un senso di profondo disgusto per chi si presenta su un argomento specifico e, settorializzando la realtà, dice: “Io su questo argomento ho una competenza, adesso ve lo dimostro”. Io non ho questa competenza. Certo, ho avuto i miei guai, nel senso che più di vent’anni fa sono entrato per la prima volta in carcere e, effettivamente, quando mi sono trovato chiuso in una cella per la prima volta, ho avuto una grossa difficoltà. La prima cosa che ho pensato è stata quella di distruggere la radio, perché c’era la filodiffusione ad altissimo volume e, chiuso lì dentro, dopo qualche minuto, mi sembrava di impazzire. Mi sono tolto una scarpa e ho cercato di rompere l’oggetto da cui veniva quel rumore osceno. Il rumore proveniva da una scatola blindata collocata nel soffitto, accanto a una lampadina sempre accesa. Pochi minuti dopo l’inizio dei miei tentativi, una testa è entrata nello spioncino della porta blindata e mi ha detto: “Ma scusi, lei che sta facendo?”, e io gli ho risposto: “Sto cercando di ...”, “No, non è necessario, basta che lei chiami me, io sono lo scopino, e così spengo la radio da fuori ed è tutto a posto”. In quel momento ho scoperto cosa era, ed è, il carcere. Ecco, la mia cultura specifica sul carcere sta tutta qua. Il carcere è una cosa che ti distrugge, che sembra assolutamente insopportabile, – “Come faccio a vivere qui dentro, io, con questa cosa che mi frastorna la mente, che mi frastorna il corpo...” – tac, un piccolo gesto, ed è tutto finito. Questa è la mia professionalità sul carcere. Ed è anche un po’ la mia vicenda personale riguardante il carcere. Di certo, ci sono molti studi sul carcere, ma io li conosco solo in piccolissima parte. Tenete presente che alcuni studi sono stati fatti non solo da specialisti della sociologia della devianza, ma, per conto del Ministero, hanno fatto degli studi anche gli stessi detenuti. Uno di questi studi è stato nel carcere di Bergamo. Io, che l’ho visto, vi ho trovato cose incredibili, grafici bestiali, spaventose indicizzazioni statistiche sulla popolazione detenuta di quel carcere nell’arco, mi pare, di tre anni. Comunque, questi studi lasciano il tempo che trovano, non sono materiale serio, nel senso che può essere realmente proposto a chi deve, eventualmente, prendere decisioni. In fondo, secondo me, non si deve sopravvalutare la capacità degli strumenti scientifici e le loro possibilità di impiego, specie in questo campo. Le scienze sociali non sono scienze precise, per quel che è possibile parlare di precisione nella ricerca scientifica. Ci sono tanti strumenti ma quasi sempre inefficaci. La strumentazione matematica che si possiede è sempre più in corso di svalutazione, ci si rende conto adesso che non si prova assolutamente nulla con questi strumenti. Non c’è modo di poter arrivare ad una conclusione. Non si può dire: visto che ci sono tante persone in gabbia, allo stesso modo di come accade con i topi, vediamo cosa succede. Non è così semplice, le persone non sono topi, per fortuna. E in più la scienza che studia la gente, la sociologia, nella sua maggior parte è un ginepraio di coglionate, fortunatamente. Ma quali sono le posizioni teoriche riguardanti il carcere? Penso che a questa domanda io possa rispondere, anche a causa della mia ignoranza, che posizioni teoriche ce ne sono tante ma lasciano tutte il tempo che trovano. In generale, a me non interessano molto. Sono quelle dei libri, le varie disquisizioni dei filosofi sul carcere, le chiacchiere dei cosiddetti specialisti. Alcune posizioni teoriche sono state un po’ più importanti e più significative, diciamo, una ventina di anni fa, però perdono d’importanza oggi. C’è una concezione del carcere che lo lega, come sviluppo storico, ad una particolare evoluzione della formazione produttiva specifica del capitalismo. Si può assistere così ad una ricostruzione, fatta un po’ a toppe e a strattoni, che procede in questo modo: il carcere antico, posto in relazione con la produzione pre-capitalista, oppure pre-mercantile, poi il carcere mercantile, il carcere capitalista, il carcere imperialista, il carcere... insomma, tutte cazzate, secondo la mia personale opinione! E non mi interessa affatto discutere se oggi si possa parlare di un carcere post-industriale, a me pare una stupidaggine, ma c’è gente che ha voglia e capacità di farlo e quindi riesce a spacciare queste chiacchiere come cose realmente importanti. Penso che questi punti di vista teorici non hanno molta importanza, se non a livello di esercitazione sociologica. I primi sostenitori del carcere in assoluto sono i detenuti, senza saperlo e senza volerlo, ovviamente, perché è come l’operaio che si riconosce nella fabbrica, nel sistema della fabbrica se è un operaio di fabbrica, o sostanzialmente nella catena che lo tiene legato. Come diceva Malatesta, non ci rendiamo conto, essendo abituati alla catena, che noi non camminiamo grazie alla catena, ma malgrado la catena e ci accade perché si tratta di un fatto che non è tanto facile capire. Spesso, parlando con un detenuto che ha fatto venti, trent’anni di carcere, ti accorgi che lui certamente ti parla di tutti i guai del carcere, ecc., però vedi pure che ha un rapporto di amore e odio con l’istituzione carceraria, perché in fondo quest’ultima è la sua vita. E questa è una parte del problema. Capisci così che non puoi sviluppare una critica partendo dal pensiero che viene dall’interno del carcere, dall’esperienza che viene dall’interno del carcere, perché questa esperienza è certamente un’esperienza negativa di rigetto e di rifiuto del carcere, ma è sempre ambivalente, come tutte le esperienze della vita. Io, personalmente, l’ho vissuta ma non so spiegare in che modo l’ho sentita crescere dentro di me. Gli uomini non sono automi, non vedono le cose in bianco e nero. Ebbene, capita che al momento di uscire dal carcere hai una sensazione come se lasciassi una cosa a te cara. E perché? Perché sai che stai lasciando una parte della tua vita, perché lì dentro hai trascorso una parte della tua vita, la quale, anche se nella condizione peggiore, è sempre una parte della tua vita, e per quanto l’hai potuto vivere male, fra le più atroci sofferenze, che poi magari non è sempre vero, è sempre meglio del niente a cui la tua vita si riduce nel momento che non c’è più. Quindi, anche il dolore, qualsiasi dolore, è sempre meglio del niente, è sempre una cosa positiva, e magari non lo sappiamo spiegare, però lo sappiamo, i detenuti lo sanno. Quindi i primi sostenitori del carcere sono proprio loro. C’è poi il senso comune, questa fortissima soglia, insuperabile, che non riesce a capire come si potrebbe fare senza il carcere. Di fatto, questo senso comune attanaglia e fa diventare a volte ridicole le proposte di abolizione del carcere, perché, in effetti, questa proposta vuole salvare capre e cavoli, quando sarebbe semplicissimo dire: “Il carcere è insostituibile, fermo restando le cose. Come faccio a far restare fermo il diritto del gioielliere a salvaguardare la sua proprietà, davanti al mio diritto di pigliargli i gioielli con la pistola, io che non ho soldi e non so cosa mangiare?”. Sono due cose in contraddizione tra loro. Ponendole sul piano del contratto universale, o del diritto naturale voluto da Dio, dal Diavolo, dalla Ragione o dall’animalità kropotkiniana, come faccio a superare questa contraddizione? L’unica valutazione corretta è la più elementare: se mi va bene mi piglio i soldi, se mi va male mi faccio gli anni di galera. Ho parlato con tanti rapinatori e, fra i primi che ho incontrato, uno mi fece questo discorso: “Senti – mi disse – piglia un pezzo di carta, tu che sai leggere e scrivere, fatti i conti, quanto posso guadagnare in tre anni di lavoro in una fabbrica?”. (All’epoca in fabbrica si potevano guadagnare in tre anni di lavoro circa 15 milioni). E lui, continuando: “Io faccio una rapina, se mi va bene mi piglio più di 15 milioni, me ne piglio 20, forse 30, se mi va male mi faccio tre anni di carcere e sono sempre allo stesso punto. In più, anche se mi va male, non faccio tre anni di lavoro sotto un padrone che mi tortura, oppure in Germania a dormire nei container, ma sto in galera e qui, bene o male, sono rispettato, sono un rapinatore, quando esco all’aria mi riconoscono come una persona seria, non come un disgraziato che vive del suo lavoro”. Io, francamente, con tutta la mia scienza, non ho saputo cosa rispondere, non mi sembrava sbagliato il suo discorso, anche ponendolo sul piano del puro calcolo monetario. E che gli potevo dire? “Ma, sai, la proprietà non si tocca”. Mi avrebbe sputato in un occhio! Cosa potevo dire? “La bilancia è sbilanciata, tu la devi riportare in equilibrio”, ma a quello la bilancia gliel’avevano sbilanciata una volta per tutte. Come diceva Fichte, che di filosofia se ne intendeva, almeno così pensava lui: “Chi è stato defraudato di quanto gli tocca in base al contratto sociale, ha il diritto di andarselo a riprendere”, e lo diceva uno che sicuramente non era né un rivoluzionario e nemmeno un progressista. La soglia del senso comune ci impedisce di pensare ad una società che sia priva del carcere, e fa bene, secondo me, perché il senso comune non è sempre da mettere sotto i piedi, in quanto una società con queste condizioni di distribuzione dei rapporti produttivi, con queste condizioni dei rapporti culturali e dei rapporti politici, non può fare a meno del carcere. E pensare ad una possibile eliminazione del carcere da questo contesto sociale è una bella utopia che può soltanto alimentare le pagine dei libri di quelli che, lavorando all’Università, scrivono pagati dallo Stato. Il resto, secondo me è veramente perdita di tempo, per lo meno per quello che ho potuto capire. Può essere che ho capito male queste tesi sull’abolizione del carcere, eppure mi sembra di avere notato alcuni di quelli che oggi sono sostenitori dell’abolizionismo, gente che conosco personalmente, essere gli stessi che ieri si dicevano non dico stalinisti, ma comunque sostenitori delle chiacchiere del materialismo storico sul carcere, cioè sostenitori delle analisi del carcere come realtà strettamente legata allo sviluppo della formazione produttiva, ecc. Questi stessi sono oggi per l’abolizione del carcere perché questa ipotesi è di natura anarchica, libertaria almeno, e non è di natura autoritaria o stalinista. A prescindere dalle straordinarie capacità di evoluzione politica, con cui questa gente non finirà mai di stupirmi, persisto nel dire che, comunque, questa tesi dell’abolizionismo è sempre una stupidaggine, anche se la si qualifica come anarchica. E perché non potrebbe esserlo? Forse che gli anarchici non dicono stupidaggini? Non è una strana cosa. Io conosco un sacco di anarchici che dicono stupidaggini. Secondo me non esiste una equivalenza tra anarchico e intelligente, l’anarchico non deve essere per forza intelligente. Io conosco moltissimi anarchici stupidi. E conosco molti poliziotti intelligenti. Che c’è di male? Non vi ho mai trovato niente di strano in questo. Sì. I l concetto non sembra difficile, perché l’abolizione, almeno per quello che ho capito io – che magari ho capito male, e siamo qua per chiarirci eventualmente le idee – l’abolizione di una parte di un contesto è una ablazione. In altre parole, prendo una parte e la tolgo. Dalla società, di cui il carcere è oggi componente insostituibile, dovrei dunque, in questo momento, prendere il carcere e toglierlo via, come si fa con la parte avariata di un tutto, che si taglia e si butta nella spazzatura. Questo è il concetto dell’abolizione. Abolire il carcere e sostituirlo con un altro tipo di organizzazione sociale, la quale, per non essere un carcere sotto altro nome, non deve prevedere né la sanzione, né l’applicazione delle pene, né la legge, né un principio di coercizione, ecc. Quello che forse non si vuole capire è questo: l’abolizione del carcere prevede il capovolgimento della situazione normale che giuridicamente si viene a creare fra la vittima e chi ha compiuto il reato, il cosiddetto colpevole. Oggi, tra vittima e colpevole si opera un allontanamento, che poi si fa separazione netta appunto con la carcerazione. La vittima e il colpevole non si incontreranno mai più, anzi si eviteranno per sempre. Io non vado di certo a trovare in quel di Bergamo il gioielliere dove ho fatto una rapina. Quello, vedendomi, chiamerebbe subito la polizia. Su questo non ci sono dubbi. Cosa avviene invece nell’ottica dell’abolizione. Non si allontanano i due soggetti del fatto previsto come “illegale”, al contrario si mettono in contatto tra loro attraverso la contrattazione. Ad esempio, li si mette in condizione di stabilire insieme qual è il danno e il responsabile del fatto “illegale”, anziché andare in carcere, s’impegna a ripagare il danneggiato, in denaro se questo è possibile, oppure con un lavoro. Per esempio, c’è gente, pare, che si sia accontentata di farsi dipingere la casa, non so, cose del genere. Queste assurdità, secondo me, partono da un principio filosofico di tipo diverso da quello previsto dal codice. L’allontanamento tra “colpevole” e “vittima” è istituzionalizzato non solo dalla struttura di dominio ma anche dalle singole situazioni concrete, tranne i casi in cui il passaggio alla cosiddetta situazione illegale venga determinato da passioni o sentimenti difficilmente controllabili, diciamo, nella maggior parte dei casi, non solo il colpevole cerca di fuggire per salvare il malloppo, o la pelle, ma cerca di avere meno contatti possibile con la vittima. Poi, c’è anche l’altro aspetto dell’allontanamento, quello istituzionalizzato con l’intervento del giudice, dell’avvocato, del tribunale, del carcere. Quindi, allontanamento non solo dalla vittima ma dalla società, con l’appendice di quella particolare attenzione impiegata nei casi in cui il colpevole ritorna nella società. Per evitare un contatto troppo brusco, molte volte ci sono precise pratiche di polizia: si esce dal carcere, immediatamente arriva la pattuglia della polizia, ti impacchetta e ti porta in questura, vieni identificato un’altra volta. Tu sei ormai un uomo libero perché hai finito la pena da scontare, ma loro non sono contenti. Da qui le espulsioni da una determinata città, insomma, tutte le pratiche necessarie per allontanarti. L’abolizione tutto questo non lo prevede. È un concetto più complesso quello dell’abolizione, di quanto non posso aver fatto capire qui, adesso. Resta però in esso questa curiosa anomalia logica: l’ablazione è pensabile in teoria, ma praticamente irrealizzabile in un contesto sociale in cui il carcere è, ovviamente, componente essenziale. Viceversa, la distruzione del carcere si lega evidentemente a un concetto rivoluzionario di distruzione dello Stato e, quindi, si inserisce all’interno di un differente processo di intervento nelle lotte. Insomma, il discorso che facevamo prima per essere capito fino in fondo, deve essere svuotato da ogni ostacolo efficientista che spesso lo fa vedere in modo errato. Le lotte alle quali partecipiamo, e anche le conseguenze di queste lotte, non possono essere sempre sottoposte al ragionamento di ottenere in cambio qualcosa per quello che facciamo, ottenere per forza dei risultati dalle cose che mettiamo sul tappeto. Al contrario, molto spesso, non siamo in grado di valutare le conseguenze delle lotte alle quali partecipiamo. C’è una diffusione relazionale, di larghissimo raggio, le cui estreme periferie di affievolimento non sono riscontrabili da parte nostra. Non abbiamo cognizione di quello che può succedere, a livello di persone che si muovono, di altri compagni che faranno altre cose, modificazioni di rapporti, modificazioni di presa di coscienza, tutto quello che viene dopo, quando a noi sembra che tutto sia finito. Questa sera siamo qua, stiamo partecipando a questa discussione e, per me, anche questa è una lotta, perché non mi va di discutere semplicemente per ascoltare il suono della mia voce, perché sono convinto che nella coscienza di ognuno di voi stanno entrando concetti, come nella mia coscienza sta entrando la gioia di essere qui con voi, di sentire la vostra presenza fisica vicino a me. Stiamo discutendo di qualcosa che mi sta a cuore e io porterò con me questo patrimonio che mi state regalando, così come, penso, che io possa darvi qualcosa che porterete con voi e che domani potrà dare i suoi frutti, impensati, in una situazione diversa, in un contesto diverso, e questi sono i risultati non quantitativi, non efficientisti, i quali hanno un loro senso e ce l’hanno nella pratica, non nell’astrattezza dell’utopia o della teoria. Ce l’hanno nelle cose che facciamo, nelle trasformazioni che riusciamo a realizzare. In questo senso intendo parlare di distruzione del carcere, perché nel momento che ci mettiamo in quest’ottica e realizziamo piccole lotte, magari come la discussione di questa sera, o come altre cose che non è il caso di elencare e che potremmo sviluppare domani o negli anni futuri, conseguentemente trasformiamo questa realtà. Il carcere diventa allora uno degli elementi di questa trasformazione, e trasformazione in questo contesto vuole dire distruzione, distruzione parziale in vista di quella che deve essere la distruzione finale che è distruzione dello Stato. Capisco che questo concetto può essere considerato eccessivamente tirato per i capelli o eccessivamente filosofico, però nel momento che ci riflettiamo sopra diventa chiaro, perché diventa modello di comportamento per tutte le azioni che facciamo giornalmente, per il nostro modo di rapportarci con chi ci sta vicino, con i nostri familiari, con chi ci sopporta tutti i giorni, con chi ci vede una volta tanto. Anche questo fa parte del progetto rivoluzionario. Non esistono infatti due mondi: il rapporto che ho con la mia compagna è una cosa, il rapporto che ho con i miei figli è una cosa, il rapporto che ho con i pochissimi compagni rivoluzionari che ho incontrato in vita mia per sconvolgere il mondo è una terza cosa, tutto assolutamente separato. Non è vero, non è così. Se io sono uno stronzo nei miei rapporti sessuali, non posso essere un rivoluzionario, perché questi rapporti li trasferisco immediatamente in un contesto più ampio. Potrò ingannare una, due, tre persone, poi arriva la quarta che mi presenta il conto e non riesco ad ingannarla. Ci deve essere per forza questa unità di intenti, questa affinità elettiva che mi lega con tutte le azioni, che non posso separare fra di loro, in qualsiasi contesto, in qualsiasi cosa faccio. Se io sono stronzo, prima o poi finisce per diventare evidente. Ma torniamo al nostro argomento dal quale mi pare che ci siamo allontanati non poco. Veniamo a tutta la teoria sul carcere, al perché esiste la pena, al perché esiste la struttura giudiziaria che supporta e rende possibile la pena, e su questo penso che tutti voi che mi ascoltate ne sapete più di me. Penso che sia opportuno trovarci insieme su di una linea di ragionamento molto semplice: il concetto di pena è basato su un principio essenziale, esso è una privazione a cui viene sottoposta una determinata persona per non avere assunto un comportamento secondo le regole prefissate. Ora, se stiamo attenti, questo concetto si applica a tantissime cose, anche ai rapporti interpersonali, però riceve una particolare sanzione soltanto nel caso in cui ci si trova di fronte a una struttura giudiziaria, a una struttura statale in grado di fare mantenere quella determinata sanzione secondo certe regole prefissate o, comunque, nell’àmbito di queste regole. Con la pena lo Stato cosa vuole raggiungere? Non solo lo Stato di oggi, che dentro certi limiti conosciamo, ma lo Stato in generale per come si è sviluppato nel corso almeno degli ultimi trecento anni. Il dominio, che una volta non si chiamava Stato, cosa vuole raggiungere? Prima di tutto vuole sottoporre il cosiddetto colpevole ad una misura fisica di controllo più accentuata di quelle impiegate correntemente nella cosiddetta società libera. Ancora una volta devo dire che non ho competenze specifiche in questo campo, ma, per quello che posso avere letto e che, ripeto, non è molto e forse non è nemmeno aggiornato, i processi di controllo sono affidati adesso, in massima parte, a quelle che sono le possibilità considerevoli della telematica, della raccolta dei dati, ecc. In fondo in fondo, la schedatura universale, che è in atto (ho visto, per esempio, che stanno schedando anche attraverso le bollette della luce), è, come dire, una strategia aggirante che prima o poi pesca tutti i pesci, per cui saranno pochissimi coloro che riusciranno a scappare. Ma una schedatura del genere è solo un’approssimazione. Ci sono paesi più avanzati in questo campo, con schedature efficientissime, ed anche in questi paesi ci sono sempre spazi per una attività extralegale, se non proprio “fuorilegge” in termini concreti. Il progetto del dominio è certamente un progetto onnicomprensivo, intende cioè includere tutti quanti in questa schedatura. Più il controllo diventa efficace in senso preventivo, più lo Stato diventa padrone del territorio. Non a caso, ad esempio, si dibatte oggi la questione della mafia, faccenda al limite tra realtà e mito, in cui non si sa bene dove l’una sconfini nell’altro e viceversa. Non so se è il caso di prendere questo argomento, il quale, anche se affascinante, è poco consistente secondo me, comunque non c’è dubbio che si tratta di un argomento sfruttato in questo momento anche per misteriosi fini di ricostituzione degli equilibri nei confronti di parti politiche avverse... Comunque, a prescindere da questi fatti, la costituzione di un controllo forte e preventivo renderebbe molto meno insostituibile l’esistenza del carcere, almeno per come lo conosciamo noi. La pena quindi assolve anche ad una funzione di controllo, e più questa funzione si allarga, diventando, oltre che successiva, preventiva, più il carcere tende a modificarsi. Teniamo presente che il carcere di oggi è molto diverso da quello di vent’anni fa. Negli ultimi vent’anni è cambiato molto di più che nei cento anni precedenti. Il processo di sviluppo del mondo carcerario sta in questi termini. Carceri particolari, come sono le cosiddette carceri modello, oggi non si differenziano molto dagli speciali. Io non voglio fare qua una discussione di lana caprina, però, in effetti, i controlli particolari nelle carceri speciali c’erano, ma non costituivano l’elemento essenziale di differenziazione. Io sono stato in un carcere speciale come Fossombrone, in epoca in cui erano in funzione carceri del genere e ho avuto l’articolo 90 per diversi mesi e so cosa vuol dire: perquisizione ogni mattina, nudi, e così via, decine di guardie davanti la porta ogni mattina, e tutto il resto. Tutti questi aspetti sono certamente spaventosi però non è là il punto centrale. Un carcere efferatamente speciale oggi non esiste. Anche nelle cosiddette carceri speciali, oggi, in fondo in fondo, ci saranno forse ore di socialità in meno, il passeggio sarà a due o a tre, qualcosa del genere, mentre in futuro tutto potrebbe essere molto peggio. Perché? Una volta ottenuto questo controllo sul territorio si ridurrebbe di molto la popolazione carceraria cosiddetta spontanea, germinata spontaneamente, ci sarebbe una sorta di depenalizzazione di molti reati, un differente funzionamento dell’istituto della carcerazione preventiva (magari controllato da questi sistemi elettronici tipo “trasponder”, che sono oggi impiegati ad esempio in America, in alcuni Stati abbastanza diffusamente, braccialetti elettronici che misurano se uno esce dal perimetro assegnato e tutte queste cose qua). Allora sì che si costituirebbe una reale ed assoluta differenza fra le carceri vere e proprie e il resto del mondo carcerario che continuerebbe ad esistere, in quanto nelle carceri vere e proprie, l’isolamento, la tortura psicologica, i camici bianchi, prenderebbero definitivamente il posto delle macchie di sangue nel muro, e in esse si applicherebbe la scienza per ottenere la distruzione totale di quei veri e propri “fuorilegge” che non intendono venire a patti con lo Stato. In questo senso si può ipotizzare una evoluzione del carcere. E io penso che gli studi che si continuano a fare, di cui ho sempre notizia, per quanto abbia una specie di ritrosia nel leggere queste cose, credo che lavorino in quest’ottica, cioè di costruire quel controllo che renderebbe sostanzialmente inutile il carcere, almeno per come lo conosciamo noi. Infatti, i luoghi di distruzione fisica, di annientamento, che lascerebbero in funzione, non ci sarebbe più nemmeno la necessità di continuarli a chiamare “carceri”, si potranno chiamare in qualsiasi maniera. Poniamo, basta affermare che se uno si comporta in un certo modo è pazzo e allora lo si chiuderà in un manicomio. E se poi la legge impedisce di chiamare questi luoghi col nome di manicomio, si chiameranno “porco d’un dio”, però saranno posti dove si ammazza la gente. La legge, quindi, come dicevo prima, vuole controllare, ma anche vuole cercare di condurre o di ricondurre il reo, insomma colui che si è macchiato di determinati cattivi comportamenti fuori della regola, all’interno di un concetto di normalità. Vuole cioè applicare, nei confronti di chi ha avuto questi comportamenti differenti, questi comportamenti diversi, una tecnica ortopedica, in altre parole lo vuole sistemare, vuole renderlo non pericoloso, vuole che quel suo comportamento difforme non si ripeta, non causi alla comunità il danno, o il presunto danno, che ha causato. Ma, nello stesso tempo, e qua emerge la più grossa contraddizione fino ad oggi non superata, nello stesso tempo, la struttura statale giudiziaria, con tutte le sue sfumature, pur accettando un’ideologia ortopedica – e vedremo entro quali limiti l’accetta – si rende conto che quello stesso strumento che applica e realizza la possibilità della pena, fa aumentare la pericolosità del diverso, cioè lo rende più pericoloso. Si ha pertanto questa contraddizione: da un lato, con la pena, si vuole ricondurre il deviante all’interno di una dimensione di normalità e, nello stesso tempo, questa situazione di pena, il carcere in primo luogo per intenderci, aumenta la sua pericolosità. Cioè a dire, prepara l’individuo come elemento maggiormente qualificato per accedere ad un processo di accentuazione della pericolosità sociale che prima poteva essersi manifestata anche in maniera accidentale. La distinzione cui ho fatto riferimento, si basa sull’esistenza, non certamente identificabile in modo netto, ma sufficientemente visibile, di una minoranza di ribelli che, all’interno delle carceri, costituisce la vera e propria comunità di fuorilegge. Questi irriducibili individui non hanno per nulla le caratteristiche politiche che un dibattito degli anni Settanta cercava di cucire loro addosso. Io penso che oggi la distinzione tra detenuti politici e detenuti comuni, in piedi per tanto tempo e causa, a mio avviso, di tanti danni, distinzione che è stata proposta e sostenuta qualche volta anche da compagni anarchici, sempre parlando nell’àmbito degli anni Settanta e della prima metà degli anni Ottanta, distinzione che poi è stata sposata anche dal potere per gestire i suoi equilibri, eccetera, ecco, questa distinzione, non ha ragione di esistere. In galera, per esempio, quando si chiama il secondino, i politici lo chiamano “agente” e i comuni lo chiamano “guardia”. Certo, questa differenza fa capire subito già dall’urlo: “agente”, che là ci deve essere un compagno. Ecco, questo fatto così marginale, del tutto innocuo, già opera una distinzione fittizia che spesso, trasferita in altri ordini di formalismi, veniva mutuata dal potere e trasformata in strumento di recupero. Secondo me, una distinzione del genere, quella cioè tra detenuti politici e detenuti comuni, non ha mai avuto validità reale, se non nella prospettiva di strumentalizzare una parte della popolazione carceraria per scopi quantitativi: crescita del partito militante, militare e militante, possibilità all’interno delle carceri di gestire certi rapporti di forza, intenzione di utilizzare come massa di manovra il sottoproletariato detenuto. Al limite, in certi casi, alcuni elementi particolari sono stati utilizzati come esecutori di basse opere di giustizia, assassinii in termini poveri, ammazzare gente, mi sono spiegato? Questo è stato fatto. Sono responsabilità storiche che alcuni personaggi dirigenti i vecchi partiti combattenti di matrice marxista-leninista, oggi in libera circolazione, si sono assunte. Anche compagni nostri sono stati ammazzati in questo modo, non perché si fosse operata quella distinzione, ma strumentalizzando gli effetti di una distinzione del genere; perché quella distinzione metteva a disposizione di alcuni, che si autodefinivano detenuti politici, la possibilità di utilizzare lo strumento dei cosiddetti detenuti comuni come massa di manovra, per contrattare con il carcere, per contrattare col Ministero, per ottenere certi risultati, spesso per fare la guerra in un bicchiere d’acqua. Questo corrispondeva, da una parte, a una pratica militare di gestione del potere, o del “contropotere” (ognuno ha i suoi gusti) e, dall’altra parte, a una centralità della classe operaia fuori (contraltare della centralità dentro del cosiddetto proletariato prigioniero, guidato dal partito che doveva indirizzare la classe operaia verso la sua futura liberazione). Secondo me, oggi queste tesi sono veri e propri reperti archeologici. Non corrispondono alla realtà, per lo meno spero che non vi corrispondano, per come la capisco io, ma può essere che mi sbaglio. È bene aprire qui una parentesi per chiarire il problema della nostra opposizione ad una lotta per l’amnistia, problema che qualche anno fa ebbe a sollevare non poche obiezioni, anche fra gli anarchici. Oggi la situazione si è modificata per quanto riguarda i rapporti all’interno del carcere, fra i detenuti che persistono su posizioni impropriamente definite irriducibili e quelli che sono entrati in contrattazione. All’epoca in cui uscì il mio libro: E noi saremo sempre pronti a impadronirci un’altra volta del cielo [Catania 1984] – libro che come molti ricorderanno era diretto appunto a criticare la possibilità di una lotta “per ottenere l’amnistia”, credo tra il 1985 e il 1986 – la tesi dominante era quella contenuta nel cosiddetto manifesto di Scalzone sostenente, appunto, una proposta di lotta per l’amnistia. La critica si sviluppò in seguito anche all’interno del movimento anarchico, con le malcomprensioni di sempre. Ma questo fu un effetto, diciamo, secondario, non era questo lo scopo del libro. Comunque, la cosa importante, che resta ancora oggi importante, è che nessuno può arrogarsi il diritto di dire: “Compagni, la guerra è finita”. Prima di tutto perché nessuno l’ha dichiarata, e quindi, fino a prova contraria, se non c’è nessuno che ha dichiarato questa guerra, non si vede perché poi qualcuno ne possa decretare la fine. Non c’è uno Stato che ha fatto una guerra o un gruppo militare che ha avuto l’idea di fare una guerra. A ragionare in questo modo si resta all’interno di una logica militarista, una logica di gruppi che si contrappongono o decidono di non contrapporsi. Per noi, nessuno può dire: “La guerra è finita”. E ancor meno può dire ciò quando la dichiarazione è fatta solo per dare fondamento alla propria desistenza. Se io non me la sento di continuare, dato che nessuno può essere obbligato se non se la sente di continuare, dico: “Amici miei, un uomo è fatto di carne, non è che può continuare all’infinito. In questo contesto, non me la sento di continuare, che devo fare? Devo firmare una carta? Non faccio atti impuri, non faccio arrestare compagni, semplicemente io sulla mia pelle firmo una dichiarazione di desistenza”. Questa ipotesi io l’ho sempre considerata legittima, perché uno non può essere obbligato a continuare se non se la sente più. Ma la desistenza non è più legittima quando io, per darle un fondamento oggettivo, cioè per darle una validità per tutti e su tutti, la giustifico affermando: “Siccome la guerra è finita, non sono in grado di continuare”. E no, non sono più d’accordo, perché questo che cosa comporta? Che tutti gli altri, fuori e dentro le carceri, per i quali non è vero che la guerra è finita, o che comunque per i quali questo concetto di “finire la guerra” è argomento di discussione, si sentono portati a ritenere anche loro che la guerra è finita, visto che lo stanno dicendo tutti che la guerra è finita, e anche loro, desistenti o non desistenti, concludono per la stessa cosa. E questo a cosa contribuisce? Che io, per giustificare la mia scelta personale e soggettiva di non continuare la lotta, spingo anche gli altri a non continuare la lotta, e mi pare una cosa indecorosa. Ora, le condizioni attuali sono radicalmente modificate, secondo me, non nel senso che questa indecorosità non c’è più, ma nel senso che è passata di moda, in quanto adesso sono intervenuti altri atteggiamenti. Non si dice più: “La guerra è finita”, che per altro non c’è nemmeno motivo di dirlo, in quanto bisognerebbe dire: “La guerra non è mai cominciata, la guerra che abbiamo condotto, sotto certi punti di vista, non era una vera e propria guerra sociale”. Quante sarebbero le considerazioni da fare. Ma la maggior parte preferisce dedicarsi all’astrologia o, qualche volta, all’assistenzialismo carcerario. Eppure, volendo, alcuni di loro potrebbero dire: “Forse su certe cose ci siamo sbagliati, forse in certi dibattiti che si sono fatti a partire dagli anni Settanta, andavano accettate altre tesi”. Che sarebbe una bella considerazione critica. Penso ad uno dei dibattiti di Porto Marghera, dove si discusse tra l’altro della morte di Calabresi, dibattito importantissimo, di cui nessuno parla perché praticamente nessuno sa niente, in cui, per la prima volta in Italia, comparvero due direttrici di pensiero sul modo di gestire le azioni, ma forse si tratta di problemi che non interessano tutti... E, tra l’astrologia e l’assistenzialismo, ecco che si avanza un’altra ipotesi: “La guerra bisogna ricominciarla, ma con altre armi, non più con la critica delle armi, ma con le armi della critica”. A chiacchiere, ridiventano pronti ad ammazzare il mondo. Per quello che so io, queste chiacchiere diventano gestione del quotidiano. Ecco che nascono dappertutto centri di elaborazione delle chiacchiere, centri di gestione e di elaborazione dell’informazione, radio (specialmente le radio, che sono importantissime, dove tra una musichetta più o meno balzana e discussioni pseudo-culturali altrettanto infondate, si veicolano concetti di impadronimento del territorio), occupazioni al limite con la contrattazione e occupazioni al limite della sopravvivenza nel ghetto miserabile e chiuso in se stesso. Così si ricomincia a sognare allargamenti sul territorio. Con questo ritrovarsi all’interno di concetti vecchi, riverniciati a nuovo, si rimette in moto la stessa gestione di sempre, la gestione autoritaria, centralizzata, partito più o meno militante (non si può dire nemmeno così), e viene fuori un nuovo tessuto. Per ora sono chiacchiere, se sono rose fioriranno. Io credo che stia succedendo una cosa del genere, non è il caso di dare indicazioni precise, sappiamo tutti bene di cosa sto parlando. Queste chiacchiere comportano alcuni aspetti interessanti: riciclaggio di vecchie cariatidi in disuso... certo anch’io sono una vecchia cariatide, per carità... ma continuo ad avere idee che a me sembrano interessanti, questa è la mia opinione, forse mi sbaglio. Resta un nucleo di compagni che sono in carcere e che sono ancora indisponibili ad entrare in contrattazione, nei confronti di questi compagni può andare la nostra solidarietà. Ma questo non basta. Non può bastare a chi ha sulle spalle secoli di carcere. Occorrerebbero proposte dettagliate, indicazioni che pongano mano alla distruzione concreta delle carceri. Non è visibile in questo momento, almeno così mi sembra, un progetto di liberazione che ponga a proprio fondamento la distruzione delle carceri. Bisognerebbe ricominciare daccapo. Insistendo su una sorta di coabitazione col potere si alimenta la desistenza della lotta. E non si tratta semplicemente di un modello di intervento nel territorio che io non condivido ma che sto a osservare nel frattempo che faccio altre cose, se ne sono capace. Si tratta purtroppo di un meccanismo che si rimette in moto e che potrebbe dare i suoi frutti, frutti per noi non accettabili, ma frutti legittimi. Per questo la situazione oggi è diversa e non scriverei senza cambiare nulla lo stesso libro contro l’amnistia. D’altro canto, non c’è possibilità concreta di ottenere qualcosa in termini di manifestazione di solidarietà, come potrebbero essere, che ne so, centomila cartoline indirizzate al presidente della Repubblica. Queste cose, di regola, lasciano il tempo che trovano, non hanno mai significato molto. Sì, le lettere, i telegrammi, significano qualcosa per i compagni, che magari non si sentono abbandonati, perché fa piacere a chi sta in galera ricevere lettere di solidarietà, ecc. Poi, dentro certi limiti, la cosa impressiona la struttura carceraria, impressiona il singolo secondino, il quale magari quando la sera passa a controllare non ti tiene la luce accesa tre secondi, ma la tiene accesa un secondo solo, perché si spaventa e dice: “Questo ha ricevuto venti telegrammi, magari uno mi aspetta qui davanti e mi spacca la testa”. Cose importantissime, per carità, non dico di no. Si tratta di fare qualcosa, una pressione, sia pure minima, di mettere in moto una deterrenza forse importante, ma la realtà è che purtroppo questi compagni hanno davanti a loro ancora tanti anni, guardando la cosa realisticamente. Il dibattito sul problema dell’amnistia non fu comunque un semplice approfondimento teorico. Divenne ben presto strumento per realizzare alcune azioni pratiche, tentativo di suggerire un certo modo di intervenire nei riguardi del problema carcere, e ha avuto, e continua ad avere, la sua importanza per cercare di impostare il problema carcerario da un punto di vista rivoluzionario. Le analisi dirette all’accettazione potevano, e potrebbero, diventare funzionali per giustificare la posizione di determinate scelte politiche nei confronti del carcere. Macroscopico è stato, secondo me, l’errore commesso con l’accettazione della lotta per l’amnistia, lotta che venne proposta, purtroppo sconsideratamente o ignorantemente, anche da non pochi compagni anarchici, i quali, non sapendo cosa fare, e non rendendosi conto dei rischi impliciti in quella scelta, decisero di sostenerla. Si trattò di un grave errore politico e anche rivoluzionario che, devo dire sinceramente, non ho mai commesso. Ad esempio, la posizione nei confronti della legge Gozzini risultò diversa in funzione delle analisi che avevano giustificato la scelta favorevole alla lotta per l’amnistia. Scelta consequenziale per i sostenitori dell’autorità rivoluzionaria, in quanto è ovvio che se uno dice che il carcere è una espressione che si modifica in funzione deterministicamente accertata del modificarsi della formazione sociale, le proposte che la controparte mi avanza per poter adeguare il mio comportamento all’evolversi storico della realtà, ad esempio la legge Gozzini, a me vanno bene, e quindi le accetto, in vista di uno spostamento della lotta in altri settori. Lo stesso per la contrattazione sindacale. Quindi non vedo perché deve accadere diversamente per la condizione carceraria. Queste che sembrano innocenti elucubrazioni teoriche in sede sociologica, diventano poi strumenti di scelte politiche ben precise che coinvolgono la vita, il futuro di migliaia di compagni che stanno in carcere. Noi abbiamo sempre sostenuto di essere contro l’amnistia, o meglio contro una lotta per l’amnistia (che sono due cose diverse, quando un’amnistia ce la danno la prendiamo, anzi). Tornando alle contraddizioni insite nel concetto di pena e nelle varie forme della sua applicazione, il quadro all’interno del quale si muove ancora oggi il dibattito teorico sul carcere, resta prigioniero della contraddizione di fondo vista prima, la quale è veramente irrisolvibile. Ora, in effetti, questa contraddizione si è acutizzata in epoca più recente. Non che prima non esistesse, soltanto che prima la funzione della pena, la funzione della struttura che applicava le pene e la funzione della struttura carcere – poniamo quello che possiamo definire il carcere antico, quindi intorno o prima del 1500 – erano funzioni puramente conservative in attesa dell’applicazione di determinate sanzioni, oppure funzioni puramente di separazione, intendevano cioè separare determinate persone dal loro contesto sociale. Dovete sapere che, per esempio, il famoso carcere di Venezia “I Piombi”, nel Settecento, come si legge nelle Memorie di Giacomo Casanova, era un carcere autogestito dai detenuti, cioè a dire non esisteva dentro le mura del carcere nessuna custodia, la custodia esisteva soltanto all’esterno, ed era uno dei carceri peggiori di quell’epoca. Ma di già con la situazione de “I Piombi” siamo un po’ più avanti del 1500, siamo in pieno Settecento. Il carcere antico aveva quindi una diversa funzione. Il carcere moderno ha la funzione di “recuperare” – stiamo parlando di funzione teorica –, riportare l’individuo all’interno di una condizione di normalità. Tra queste due funzioni, quella antica in cui il carcere era visto soltanto come un luogo in cui parcheggiare l’individuo, perché nei suoi confronti si pronunciasse una data decisione (la pena di morte, l’applicazione di determinate mutilazioni del corpo, l’esclusione dal contesto sociale, la condanna ad un semplice viaggio in Terra Santa, poniamo, che equivaleva alla pena di morte, viste le difficoltà del viaggio nel 1200-1300) e la funzione moderna, tra queste due funzioni del carcere c’è un passaggio che è costituito dal cosiddetto carcere delle case del lavoro, il carcere dell’inizio del Settecento, quando si incominciano a vedere le prime strutture carcerarie che hanno una funzione di rieducazione al lavoro, di avviamento. Dentro certi limiti di natura esclusivamente culturale su questo argomento c’è in corso un dibattito teorico che lascia il tempo che trova e che non è il caso di approfondire adesso. Posso solo dire che la struttura carceraria, poniamo come venne realizzata da Bentham col suo Panoptico, questa struttura architettonica del carcere in cui un solo custode poteva controllare contemporaneamente tutti i bracci del carcere – e tenete presente che una simile struttura esiste ancora oggi in moltissimi carceri, per quanto un po’ modificata –, questa struttura vedeva la luce nel momento stesso in cui iniziava la rivoluzione industriale. Alcuni vedono un parallelismo storico tra questi due sviluppi: nasce l’operaio, cioè il lavoratore all’interno dei primi impianti industriali, nasce la figura moderna del carcerato. Si sviluppa la condizione industriale, si sviluppa, con le sue trasformazioni, il carcere. Questa è una delle tesi che vengono sostenute, che possono essere accettate, e possono essere non accettate. Io ci vedo, dietro questa discussione, che ha attraversato tutti gli anni Settanta, una specie di operaismo centralista, visto nell’ottica dell’interpretazione del carcerario come proletariato prigioniero, ecc. Non so se per voi queste parole hanno un senso. Oggi, forse, non ce l’hanno più, per noi era pane quotidiano, diciamo, dieci, quindici anni fa, quando abbiamo dovuto affrontare non pochi dibattiti nel tentativo disperato di chiarire che questa centralità dell’operaio non c’era “fuori” e non si vedeva perché ci dovesse essere “dentro”. Per cui la centralità di un presunto e mai identificato “proletariato prigioniero”, dentro le carceri, era un fantasma. Questo comunque appartiene alle discussioni del passato. Facciamo una piccola parentesi, che forse può essere utile. Parallelamente a questo discorso sulle carceri, si è sviluppato un discorso sul diritto. Perché la norma di comportamento? Perché la legalità della norma? Evidentemente l’uomo ha cercato sempre di pensare la norma astratta come valida a prescindere dalla contingenza del momento, a prescindere dall’avvenimento storico o dalle condizioni in cui essa può essere applicata, e ciò per salvarla dalle obiezioni umane che possono venir fuori. E quindi questa “santità”, questa sacralità del diritto, è stata più volte maneggiata in modo diverso. Diciamo, la tesi più ampiamente dibattuta è quella che si richiama ad un fondamento naturale della norma giuridica. Un diritto naturale che si contrappone ad un diritto positivo, cioè a dire al diritto costruito dall’uomo e registrato nelle leggi. Il diritto naturale è quello che l’uomo ha come essere munito di ragione, quindi si tratta di un diritto naturale specifico dell’uomo, e questa è una prima tesi del cosiddetto giusnaturalismo. La seconda tesi parla di un diritto naturale che tutti gli esseri animati hanno in quanto tali, e quindi si tratta di un diritto che la natura conferisce a tutti gli esseri animati. La terza tesi parla di un diritto naturale in quanto voluto da Dio, e questa è la tesi originaria del giusnaturalismo, che era la vecchia tesi che si può leggere nella famosa tragedia di Sofocle, L’Antigone, dove Antigone dice: “Io sfido lo Stato perché la pietas familiare è una legge naturale voluta da Dio ed è superiore alle leggi dello Stato”. Queste posizioni oggi hanno ricevuto ampie critiche, più o meno risolutive, mentre sussiste la concezione del naturalismo nel diritto, quindi del giusnaturalismo, come tesi che regge la sacralità della norma. In un modo o nell’altro, che la sacralità della norma venga fuori dal formalismo giuridico voluto dalla dottrina positiva, o invece da una presupposta originaria sacralizzazione della norma voluta da Dio, voluta dal fatto che esiste una legge intrinseca nello svolgimento della storia degli esseri animati, oppure voluta da una legge intrinseca che esiste nello svolgimento della storia dell’uomo, nello svolgimento delle vicende della ragione umana (finalismo storico), non cambia nulla. C’è sempre il tentativo, in chi sostiene queste tesi, di trovare una base solida, uno zoccolo duro su cui fondare il proprio castello di comportamenti, il proprio castello delle regole. Realizzato il quale, costruito il castello, chi si trova ad essere fuori da questa cerchia ben recintata, si trova ad essere legittimamente un candidato al carcere, alla segregazione, alla esclusione o alla morte, a seconda dei casi. Ora, la tesi che più ci interessa, perché è ancora oggi sul tavolo, quindi ancora oggi oggetto di dibattito, di approfondimento, è la tesi del diritto naturale, cioè connaturato alla ragione dell’uomo come si realizza nella Storia. Questa tesi è importante perché permette, all’interno di se stessa, alcune interessanti modificazioni, cioè a dire non è una tesi cristallizzata nella volontà di Dio, valida per sempre, ma è una tesi che cambia, in quanto legata agli avvenimenti della storia. Si tratta di una tesi che si è sviluppata con pienezza proprio nel Settecento, con l’Illuminismo, una tesi che ha tutte le colpe, tutti i limiti dell’interpretazione filosofica illuministica, in quanto è una tesi che tiene presente due elementi essenziali: primo, la Storia, secondo, la Ragione. La Storia è intesa qui come retta al proprio interno da un ordine, da uno sviluppo in senso progressivo, cioè nel senso del progresso, quindi in grado di muovere da una situazione di maggiore caos e animalità, di maggiore pericolosità, verso una situazione di maggiore umanità, di minore pericolosità. Diceva Bovio: “La Storia va verso l’anarchia”, e molti anarchici, almeno della mia generazione, l’hanno ripetuto. Io non ho mai pensato possibile una strada così diritta, per cui su questo argomento ho avuto considerevoli polemiche. Io non sono affatto sicuro che la Storia vada verso l’anarchia. Parallelamente a questa lettura della Storia in senso progressivo, abbiamo un’altra venatura in questo bellissimo discorso illuminista, poi positivista, poi idealista, poi storicista, insomma, tutto elaborato nell’accademia del potere, tutto all’interno delle Università, tutto all’interno delle aule dove si studia di storia e di filosofia, tutto all’interno di questi luoghi dove lavorano i fornitori delle patrie galere. E qual è quest’altra venatura? È la venatura della ragione. Perché la Ragione ha sempre ragione? Non lo so. Ha sempre ragione per condannare tutti. Si condanna la gente alla sedia elettrica con la ragione, non esiste uno che viene condannato a morte senza ragione, ci sono mille ragioni per condannare la gente a morte e c’è sempre una ragione per questa condanna, non esiste una condanna senza ragione. Io sono entrato in galera tante volte, con ragione, la loro ragione. Si è detto che il nazismo, realizzato in Germania negli anni Trenta e Quaranta, era una esplosione di irrazionalità, cioè di mancanza di ragione. Ecco, io non ho mai pensato possibile una cosa del genere. Il nazismo è stato l’applicazione estremamente consequenziale della ragione, cioè la ragione portata alle sue naturali conseguenze, la ragione hegeliana dello spirito oggettivo che si realizza nella Storia. E, a questo riguardo, il discorso più logico è stato fatto da un filosofo italiano, è stato fatto da Gentile in una conferenza tenuta a Palermo dove ha fatto riferimento alla forza morale del manganello. Il manganello, colpendo in nome della ragione, ha sempre ragione, e la violenza dello Stato è violenza etica, perché lo Stato è etico. Questi ragionamenti possono sembrare stupidi, ma stupidi non sono perché costituiscono la radice su cui getta il proprio fondamento il cosiddetto progressivismo moderno, così come l’abbiamo, per esempio, visto nel partito comunista, nel partito dei lavoratori, nei cosiddetti movimenti rivoluzionari che nascevano da matrice marxista, e anche nella destra, nei movimenti della destra. Solo che, mentre la destra, per motivi suoi di identità, si impacchettava in un irrazionalismo di maniera (bandiere, simboli, discorsi sul destino, il sangue, la razza, ecc.), gli altri si impacchettavano in un altro razionalismo anch’esso di maniera: il progresso, la Storia, l’avvenire, il proletariato che finalmente sconfiggerà la borghesia, lo Stato che si estinguerà e, mi permetto di aggiungere, che non pochi anarchici si sono inseriti in questo discorso, viaggiando in sintonia con un simile grossissimo imbroglio metafisico e ideologico, specificando semplicemente che se la Storia non andava verso l’estinzione dello Stato, andava però verso l’anarchia e che lo Stato bisognava estinguerlo oggi per arrivare prima all’anarchia. Sfumatura ideologica che non spostava il contenuto del viaggio parallelo a quello marxista, e ciò senza che a nessuno venisse in mente che ci poteva essere un imbroglio all’interno del discorso della ragione, e che questo discorso della ragione poteva servire come base e come alibi per costruire la recinzione del diverso. Ecco perché occorrerebbe leggere criticamente in modo più approfondito il cosiddetto ottimismo degli anarchici, ad esempio l’ottimismo di Kropotkin, per vedere quali sono i limiti di questo ragionamento, per vedere in che modo ha agito, anche all’interno del positivismo anarchico, specifico di Kropotkin ma anche di altri compagni, il cosiddetto equivoco del “seme sotto la neve”. Queste sono tutte suggestioni che sto sviluppando e che sembrano apparentemente lontane dal carcere, ma che invece costituiscono il territorio teorico e filosofico in cui oggi il carcere trova la sua ragione d’essere. Si dovrebbe poter parlare anche dell’apparente posizione contraria del volontarismo malatestiano, e del modo in cui questo non propone soluzioni, se non inserite all’interno dello sviluppo “oggettivamente” determinato della Storia verso l’anarchia. Io posso essere limitato, la mia capacità personale può essere circoscritta, ma comunque la Storia va verso l’anarchia, quindi, in ogni caso, se non succede oggi succede domani. Allo stesso modo andrebbe visto, cosa che abbiamo cercato di fare nel recente convegno che c’è stato a Firenze [cfr. Individuo e insurrezione. Stirner e le culture della rivolta, Atti del Convegno, Bologna 1993], quali sono i limiti dell’individualismo stirneriano. Bisognerebbe verificare cioè se questi limiti ci sono, e quali sono, essendo ovviamente diversi da quelli malatestiani o kropotkiniani. Quindi, il riassunto di questa prima parte della discussione, qual è? Il carcere non è un abuso, non è una eccezione, il carcere è la normalità. Lo Stato, costruendo le carceri, può quindi metterci in carcere. Facendo ciò non fa una strana cosa, fa il suo lavoro, e non lo compie in modo eccezionale, semplicemente fa il suo lavoro secondo quelle che sono le condizioni necessarie perché venga fatto nel modo previsto. Lo Stato non è uno Stato carcerario, è lo Stato e basta, così come si esprime nell’attività economica, nell’attività culturale, nella gestione politica, nella gestione del tempo libero e nella gestione del carcere. Questi elementi non sono separati, non è possibile fare un discorso soltanto sul carcere, non avrebbe senso, perché sarebbe come parlare di un elemento estrapolandolo dal suo contesto. Viceversa, calando questo elemento all’interno del contesto che lo ospita e che gli fornisce, gli dà significatività, il discorso diventa differente, ed è esattamente ciò che lo specialista non può fare. Per questo siamo partiti dal discorso sullo specialista, perché lo specialista è portato a parlare soltanto del proprio discorso, soltanto del proprio argomento: “Dato che io so qualcosa soltanto sul carcere, non vedo perché vi debba parlare di altre cose”. Io credo che i fatti collettivi, se questa parola purtroppo ormai caduta in disuso e in discredito ha ancora un senso, sono costituiti da tanti momenti individuali, guai se dovessimo cancellare questi momenti individuali nella loro capacità trasformativa della realtà per annullarli in un momento superiore, quello che i marxisti definivano sussunzione collettiva, sussunzione della società, guai. Si tratta di processi intellettualmente terroristici da condannare. L’individuo ha un momento che è suo, e il carcerato ha il suo momento, e non è affatto simile a quello di un altro carcerato. Non sono assolutamente d’accordo con chi dice che io che sono stato in galera lotto in maniera più efficace di un altro che in galera non c’è stato. No, perché io lotto diversamente da un altro che non è stato in galera e altrettanto diversamente di un altro che ha fatto galera più di me, e così via. E, viceversa, potrei incontrare un compagno che è capace di suggerirmi, di farmi capire, di farmi sentire o immaginare o sognare un tipo di lotta diversa, anche se non è mai stato in galera. Nessuna specializzazione. Tenete presente le prime cose che si sono dette questa sera: non c’è una professionalità, nessuno parla da professore, ancora meno può parlare da professore di faccende di galera. Per fortuna in questo campo non ci sono specializzazioni, non siamo all’università. Ritengo che tutti siamo delle individualità che si cercano, che si incontrano, si allontanano, si avvicinano, movendosi sulla base di affinità, anche transitorie, che possono scomparire, possono intensificarsi. Siamo come una moltitudine di insiemi di atomi che si muovono, i quali hanno fortissime capacità di essere penetrati reciprocamente. Non si tratta di monadi senza, finestre, come diceva Leibniz, non siamo isolati, ma abbiamo tutti una valenza individuale. Solo tenendo costantemente presente questo momento ineliminabile si può parlare di società, o di capacità di agire, di muoversi, di vivere insieme, altrimenti qualsiasi società sarà sempre una galera. Se io devo sacrificare una parte, sia pure minima, di questa mia individualità in nome della Aufhebung, del superamento nel senso hegeliano del termine, in questo caso, in nome di un principio astratto... sia pure l’anarchia, sia pure la libertà, non sono d’accordo. Ecco perché penso che il carcere sia certamente una condizione estremizzata e quindi, come tutte le condizioni totali, le istituzioni totali, faccia vedere meglio il proprio tessuto. È come se tu una stoffa la tiri all’estremo, per cui prima di spezzarsi comincia ad apparire la trama. Ecco, l’individuo sottoposto alle condizioni più violente, fa vedere la trama con cui è fatto. Magari così scoprirà in sé di avere elementi che in altre condizioni non avrebbe sognato di avere. Ma resta sempre importante e fondamentale questo punto da cui partire, che non ci può essere un elemento, un’idea, un sogno, un’utopia, che possa cancellare questo momento individuale, in nome del quale sacrificare questo momento individuale. Ma torniamo al nostro argomento. Il carcere è la normalità dello Stato, e noi che viviamo in una condizione sottoposta allo Stato, vivendo in una condizione di vita quotidiana regolata dai ritmi e dai tempi dello Stato, noi viviamo in un carcere. Questo carcere è stato definito, a mio avviso in un modo non corretto ma interessante, come carcere immateriale, cioè non visibile come carcere, che non ci circonda in un modo così diretto e frastornante come le mura di un carcere, però, allo stesso modo, un carcere vero e proprio, in quanto viviamo costretti a subire o obbligati a imporre modelli di comportamento non decisi da noi, semplicemente introiettati, nei confronti dei quali possiamo fare poco. Però il carcere, nello stesso tempo, è una costruzione, è un luogo, è una ideologia, una cultura, un fenomeno sociale. Ha cioè una sua identità, quindi, se da un lato lo dobbiamo portare fuori dalla sua specificità, nello stesso tempo non possiamo diluirlo nella società, non possiamo limitarci a dire: “Noi viviamo tutti in un carcere, la mia posizione non cambia nel momento che valico quella benedetta porta e mi ritrovo in una cella spoglia quasi di tutto, con una radio lanciata ad altissimo volume”. Io ho subìto un trauma nel momento che ho superato la porta della cella e ho sentito che qualcuno la chiudeva alle mie spalle. Ho subìto questo trauma. Questo trauma esiste, non è solo psicologico, è anche costituito da un tizio che ha un mazzo di chiavi che tintinnano continuamente, e il cui rumore uno se lo porta dietro per tutta la vita, non se lo scorda più, è una cosa che ti tintinna dentro nel cervello, anche la notte quando dormi, questo rumore delle chiavi, un tizio che ti chiude la porta. Questo fatto di chiudere la porta credo che sia una delle cose più orrende che un uomo possa compiere nei confronti di un altro uomo. Per me una persona che tiene le chiavi in mano e chiude un essere umano dietro una porta, qualsiasi cosa possa aver fatto quest’ultimo, per me quello che si permette di chiudere la porta è una persona assolutamente indegna, una persona nei confronti della quale non c’è modo di poter parlare di fraternità umana, di sembianze umane e così via. Eppure ci sono momenti in cui tu hai bisogno di questo tizio, in cui scatta un meccanismo psicologico legato alla solitudine, in cui tu sei solo, nel tuo buco di culo, sei solo da un mese, da un mese e mezzo, da due mesi, e passano i giorni e non vedi nessuno, certe volte senti rumori incomprensibili e certe volte non senti niente, e senti un passo, là fuori, tu sai che è il suo passo, sei convinto pienamente che quella è l’ultima, la più indegna delle persone, eppure a un certo punto ti metti dietro la porta e l’aspetti come l’innamorata perché, quando passa, quella indegna persona ti butta un’occhiata che ti fa ricordare di essere un uomo, perché anche lui ha due gambe, ha due braccia, due occhi e, a un certo punto, lo vedi diverso, non vedi più la divisa, e dici: “Insomma, l’umanità esiste ancora”. Ecco a che cosa conduce quel buco, quella piccola cella, quindi ha una sua specificità, non può essere più visto come la diluizione del carcere nella vita quotidiana. Ecco perché non è immateriale il carcere. Ecco perché il carcere è una costruzione specifica, architettonicamente precisa, ma nello stesso tempo diffusa. Siamo tutti in carcere, ma il carcere è anche una cosa diversa. Però, non dobbiamo soltanto vederlo come una cosa diversa, perché dal momento che lo vediamo soltanto come una cosa diversa, non lo comprendiamo più. Capisco che, a prima vista, il discorso sembra contraddittorio, ma lo è solo apparentemente, riflettendoci bene non è contraddittorio, oppure lo è nei limiti e nelle particolarità in cui tutto è contraddittorio. La pena, avevamo detto, è quel meccanismo che i filosofi cosiddetti importanti... Pensate cosa diceva Kant sulla pena, questo grande filosofo diceva una cosa orrenda, diceva: “Se in un’isola in cui ci sta una comunità, e questa comunità si scioglie, tutti partono da quell’isola e in quell’isola resta l’ultimo uomo, un assassino, l’ultimo che ha ammazzato un uomo, ormai la comunità si è sciolta, non c’è assolutamente nulla da salvaguardare, il bene comune non esiste più, non c’è assolutamente nulla da ripristinare, eppure quell’uomo deve lo stesso scontare la sua pena”. Ecco cosa diceva Kant, il filosofo che ha aperto le prospettive dello storicismo moderno. Bah!... Comunque... Quindi, la pena cosa fa? Secondo i teorici di qualsiasi colore, ripristina l’equilibrio turbato, rimette in equilibrio la bilancia. Ma, in effetti, cosa fa la pena? Fa altre cose. Innanzitutto precipita l’individuo nella condizione di incertezza. Cioè, chi affronta una struttura, un meccanismo così efficiente, si trova di fronte a qualcosa di più grosso di lui. Un meccanismo fatto di avvocati, giudici, carabinieri, polizia, perquisizioni, strattonamenti, bestemmie, essere spogliati nudi, le flessioni, anticamente c’erano le ispezioni anali, chi non l’ha subita non può immaginarsi cosa vuol dire, le condizioni di detenzione nelle caserme... tutto questo è la pena. Ma ancora siamo nella parte introduttiva della pena, ancora tu non sei accusato di niente, solo qualche parola su un pezzo di carta in cui c’è scritto un articolo del codice che tu nemmeno sai a cosa si riferisce, ma di già la pena ti entra nel sangue e diventa parte di te stesso. E come diventa parte di te stesso? Mettendoti nella condizione di incertezza. Tu non sai cosa ti sta succedendo, puoi essere il più incallito dei criminali e trovarti in questo stato di incertezza, e io lo so perché ho parlato con gente che apparentemente era padrona di sé, persone che quando entrano in carcere salutano il maresciallo, salutano questo e quello, ma quando si vanno a coricare mettono la testa sotto il cuscino e si mettono a piangere. Perché la situazione è così, quando uno viene a trovarsi in quelle condizioni non è facile prevedere come andrà a finire. Io ho parlato anche con tanti compagni, abbiamo scherzato insieme sulla situazione del carcere, però non abbiamo potuto negare di essere stati messi in una condizione di incertezza, in una situazione in cui non sai cosa ti aspetta l’indomani. E questa condizione di incertezza è forse l’elemento essenziale, l’elemento che costituisce il primo punto di tutte le sindromi, di tutte le malattie specifiche, di tutto quello che viene fuori da una permanenza in galera. Tu sarai in una condizione di incertezza per tutto il tempo che resterai lì dentro. Difatti, fino a tre minuti prima di uscire dall’ultimo cancello – che poi ce n’è una ventina da quello della tua cella a quello dell’uscita –, tu non sai se, esattamente due metri prima dell’ultimo passo, lì dentro scoppia una rivolta, vieni coinvolto nella rivolta e sei perduto, se ne parla vent’anni dopo. Quindi, questa incertezza è praticamente dentro di te, tu lo sai che è dentro di te, e non puoi dire: “Va bene, dopo tutto io sono un rivoluzionario, queste cose non mi toccano: il carcere, la morte, vent’anni, due mesi...”, compagni, sono cazzate. Sono cazzate che ho detto anch’io, per farmi coraggio, e anche per infondere coraggio agli altri, ai familiari, a mia madre, a mio padre, che erano anziani e venivano affranti ai colloqui. Quando sono entrato in carcere la prima volta piangevano, poveretti. Sono situazioni difficili, e questa incertezza la proietti all’esterno, la proietti su quelli che ti vogliono bene, sui tuoi figli, su tutta una situazione che non si cancella con le chiacchiere. Io mi ricordo quando, trovandomi appunto per la prima volta in isolamento in galera, venticinque anni fa, mi mettevo a cantare le canzoni anarchiche... e io odio le canzoni anarchiche. Come facevo, lì dentro, a cantare quelle canzoni? Cantavo per farmi coraggio, come fa un bambino quando è al buio che per darsi coraggio fischia, oppure si racconta le favole. L’altro elemento, che a me accadeva di vedere in maniera palpabile, era la deformazione della comunicazione. Non riesci a comunicare. Per poter dire una cosa, poniamo cambiare il nome dell’avvocato, c’è una procedura burocratica: la sera devi appiccicare sulla porta blindata della tua cella un pezzo di carta dove hai scritto che l’indomani mattina vuoi andare all’ufficio matricola. L’indomani ti chiamano, e ti avvii verso la matricola. Calcolando, poniamo, che ci vogliono settantacinque metri per arrivare, ti fai il conto di impiegarci qualche minuto, e no! possono passare da dieci minuti a un’ora e mezza per fare quei settantacinque metri, e tu cominci come un cretino ad aspettare dietro ogni porta che arrivi un angelo con la divisa che ti apra, trac-trac, e passi primo, secondo, terzo, quarto ostacolo, e tutto il resto. Questo ti cambia completamente il mondo. Che cosa ti cambia? Ti cambia la concezione dello spazio e la concezione del tempo. Pare una cosa facile, perché noi la maneggiamo come moneta corrente, come i pezzi da cinquanta o da cento lire, la concezione dello spazio e del tempo, però non è così semplice, perché il tempo non è affatto segnato dall’orologio: questo è il tempo assoluto, il tempo di Newton, determinato una volta per tutte, poi accanto a questo tempo c’è quello che un altro filosofo, un filosofo francese, chiamava la durata reale, cioè a dire c’è il tempo nel senso indicato da sant’Agostino, il tempo come la nostra coscienza, come durata della nostra coscienza. È l’attesa. L’attesa la misuriamo con uno scandire delle nostre sensazioni, durata che non è affatto uguale a quella del tempo assoluto, segnata dall’orologio. Una volta, in galera, gli orologi erano vietati, adesso, dopo il 1974, dopo la riforma carceraria, sono permessi, ed è peggio, secondo me, perché una volta uno non sapeva che ora era, si regolava col sole, o con i ritmi del carcere, i quali costituiscono un orologio “naturale”, un orologio dell’istituzione, per cui si sa che alle sette e mezza si apre la porta blindata e comincia la giornata. Il rumore che fanno nell’aprire il blindato ha la sua funzione, storicamente riscontrabile, che in varie epoche si è sviluppata in maniera diversa. Nel corso di alcune ricerche sull’Inquisizione ho trovato, in un manuale del 1600, una descrizione di come aprire il blindato nei casi in cui i confratelli della Compagnia dei Bianchi, quelli con il cappuccio bianco per intenderci, dovevano prelevare un condannato a morte per condurlo al patibolo. In Sicilia c’era l’Inquisizione spagnola, quindi erano bene organizzati. Gli appartenenti a questa Compagnia dei Bianchi avevano il compito di assistere i condannati a morte nei tre giorni precedenti l’esecuzione. Fra i loro compiti c’era quello di accertarsi che i condannati fossero maturi per essere giustiziati, e come facevano? Avevano inventato una tecnica particolare: si organizzavano come se stessero per portare il condannato all’ultimo supplizio, lo svegliavano di mattina presto, facevano un gran rumore, marciavano in gruppo con tutti gli incaricati del supplizio, gli alabardieri, eccetera. Ma non era vero, era solo un’atroce messa in scena, semplicemente per vedere come reagiva quel povero disgraziato. Se quello reagiva in un modo che era adeguato alla bisogna, cioè se non andava in escandescenze, lo consideravano pronto per l’operazione definitiva. Quindi, aprire un blindato non è una cosa semplice come aprire una porta. Questi giovanotti aitanti, istruiti in quel di Parma, ricevono disposizioni particolari: il blindato si apre con colpi violentissimi, il detenuto mentre dorme deve saltare in aria, da quel momento deve pensare: ecco, il mondo dei sogni non c’è più, ora comincia l’istituzione, ora mi dicono cosa devo fare. Sette e mezza, non si esce, si esce alle otto e mezza, insomma tutta la storia che viene fuori dal ritmo del carcere che è quello ovviamente voluto da loro. Ad esempio, non so, una cosa importante, lo scandire del tempo è segnato anche da altri fatti: ti arriva il latte la mattina (io ho riflettuto molto su questi piccoli fatti, tanto non c’è niente da fare in galera e quindi uno che fa? riflette), poi ti portano un uovo o due alle dieci, poi alle dieci e trentacinque o alle undici la frutta, poi a mezzogiorno il pasto, poi alle due ti portano un’altra cosa, non so, la marmellata, perché? Perché loro in questo modo ti scandiscono il tempo, te lo regolano. L’arrivo del cibo è un avvenimento e tu lo inquadri nel contesto segregativo e la tua vita si adegua a quel contesto. Tutte queste cose sembrano chiacchiere, ma costituiscono, secondo me, la scienza, la vera scienza carceraria. Che ne sanno i cosiddetti operatori carcerari, che pure si ritengono preparati? Innanzitutto, cominciamo, il professore universitario in galera non c’è mai stato. Normalmente, quelli che si interessano del carcere non sanno nemmeno cos’è il carcere. Lasciamo stare i filosofi del diritto, i quali poveretti non sanno nemmeno cosa dicono. Parliamo degli operatori del carcere, i quali più sembrano vicini all’interno del carcere e forse meno ne capiscono. Gli avvocati e i giudici, sì, sono entrati in galera, ma dove? Nel perimetro esterno, nella saletta dei colloqui. Tranne casi eccezionali in cui un giudice di sorveglianza entra nei bracci (ma è sempre nei bracci che entra e soltanto nei bracci, non nelle celle), avvocati e giudici normalmente non sanno neanche cos’è un carcere. Io voglio dire di più, non sanno cos’è il carcere nemmeno gli operatori carcerari, gli psicologi, gli assistenti sociali, i poliziotti di ogni genere. Difatti, il loro compito qual è? Entrano nelle stanze a loro riservate, fanno chiamare il detenuto, lo intrattengono in una bella discussione e se ne vanno a mangiare a casa. Ancora, continuiamo, i secondini, anche loro non sanno cosa è il carcere, e ve lo dico per esperienza personale. Ad esempio, mi trovavo a Bergamo e ho organizzato, insieme ad altri detenuti, nei limiti delle nostre possibilità, non la chiamiamo una rivolta, ma una specie di rimostranza, perché ci smantellavano le otturazioni con le quali cercavamo di chiudere i buchi che i secondini avevano fatto nel cesso per controllarci anche in quel posto. Tutti i carcerati otturano questi buchi come possono, ricorrendo a qualsiasi strumento: carta, pezzetti di legno, asciugamani stesi e cento altre cose. Di regola, queste difese vengono lasciate stare, ma quella volta, a Bergamo, il direttore aveva dato ordine di eliminarle, quindi i secondini, con una matita le smantellavano. Alla nostra rimostranza il direttore mi rispose: “Ma cosa sta facendo per una faccenda da nulla, non sta succedendo nulla, dopo tutto siamo fra uomini”. Come, siamo fra uomini? “Tu sei direttore e io sono detenuto e non mi va che il secondino mi guardi mentre sto nel cesso”. Quindi lui considerava il problema come una cosa in fondo non grave. Ma questa camaraderie da caserma indicava che lui, pure essendo direttore del carcere, non sapeva cos’è il carcere. Perché io, con un mio compagno di cella, carcerato come me, un mio compagno, che certamente non si può, come umanità, come amicizia, come rapporto personale, paragonare al direttore di un carcere, questo è ovvio, io non vado assieme al cesso, mi pare evidente. E quando una volta il cesso era nella stanza, si trovavano mille espedienti per andare al cesso separatamente. Una volta, difatti, non c’era il cesso separato, ma era nella stessa stanza. Quasi un quarto di secolo fa, quando per la prima volta ho lavorato nel carcere di Catania, mi hanno incaricato di registrare la spesa dei detenuti, così ho notato che nelle celle con parecchi detenuti si consumava un grandissimo quantitativo di magnesia S. Pellegrino. Quando ne chiesi il motivo mi spiegarono che prendendo la purga tutte le settimane, quando si va al cesso non si fa puzza, oppure se ne fa di meno. Questo cosa ci fa capire? Che il direttore, i secondini, non sanno che cos’è il carcere. Perché il carcere, per capirlo, si deve essere dall’altra parte della porta quando questa viene chiusa dalla guardia. La chiave ci vuole, senza chiave sono tutte teorie. Quindi, tornando alla nostra specificità. Certo, il carcere è costituito dai muri, dal secondino con la mitraglietta là sopra, dal passeggio, dalla nebbia che scende sul cortile e non sai dove sei, in quale pianeta ti trovi, in esilio, sulla luna, non si sa, ecc. Però, in fondo, il carcere è la cella. E in cella ci puoi essere da solo o con gli altri, e sono due condizioni e due sofferenze diverse. Perché, sì, siamo forti, ecc., però io ho fatto il carcere da solo ed è pesante. L’ultima volta ho fatto quasi due anni da solo, ed è stato pesante. Con gli altri è forse ancora più pesante, o comunque è pesante in altra maniera, perché nella condizione di reclusione, l’animale uomo ha comportamenti strani e quindi... Questo è un accenno dei problemi riguardanti il carcere fatto un po’ così, detto alla buona, e lascio stare gli altri argomenti. Mi ero segnato altri problemi ma non sono poi molto importanti. Voglio solo ricordarne due, quello relativo all’odore. Il carcere ha un odore particolare che non si scorda mai. Lo si sente la mattina. Mi ricordo che è l’odore che hanno tre cose: i bar quando aprono la mattina presto, i bigliardi e i bordelli. Nei luoghi dove l’animale uomo si trova in condizioni di particolare sofferenza c’è un odore particolare, e il carcere ha questo odore e non te lo scordi più e si avverte di più la mattina, quando ti aprono il blindato, il perché non me lo chiedete, non lo so. L’altro problema è il rumore, il rumore è veramente una cosa spaventosa, non c’è modo di abituarsi. Non è soltanto la musica, le canzoni napoletane che ti torturano. Non si può descrivere, una cosa orrenda. Mentre un problema di secondaria importanza, almeno per quello che ho potuto capire, e non solo dal punto di vista mio, personale, è il problema del desiderio sessuale. Questo veramente non è il problema centrale, come potrebbe apparire dall’esterno. Io ho visto la risposta che è stata data una quindicina di anni fa a un quesito mandato dal Ministero sulla eventuale possibilità di instaurare in Italia il sistema della cosiddetta ora d’amore, diciamo, con il legittimo partner, e questa risposta è stata quasi totalmente negativa. Vediamo ora l’ultima parte del discorso, se non vi siete frastornati troppo. Quali possono essere le prospettive del carcere? Cioè, in che modo i dominanti stanno cercando di ristrutturare la condizione carceraria, la quale, ovviamente, non è mai un fenomeno stabile? Il carcere, per definizione, è una cosa incerta, quindi non si sa mai che cosa succede. L’incertezza non è soltanto nell’aleatorietà dei regolamenti. C’è la legge che dice che il detenuto deve avere il regolamento del carcere, quando entra, per poterlo leggere e poterlo rispettare, volendo. In qualche carcere, come alla Dozza di Bologna per esempio, danno un estratto di tre pagine, ma il regolamento è una bestia di 150 pagine. Per cui succedono cose incredibili. Se uno si procura il regolamento e lo legge bene finisce per mettere in difficoltà alcuni aspetti del meccanismo di controllo. Dicevo che il carcere è una realtà sempre in profonda trasformazione e, secondo me (questa è una tesi personale), il carcere va verso un’apertura, cioè tende ad aprirsi e a fare partecipare. Nelle condizioni di carcerazione degli inizi degli anni Settanta, per farti in cella un uovo fritto, o il caffè, diciamo, impiegavi circa un’ora, perché occorreva montare con le scatole vuote dei fiammiferi coperte della carta stagnola delle sigarette una specie di impalcatura, poi metterci sotto il gas solidificato, la cosiddetta “meta”, poi accendere questa cosa, poi fare bollire, sempre armeggiando questa alchimia vicino al cesso, perché non c’erano tavoli, non c’erano sedie. Il letto bisognava chiuderlo la mattina, piegarlo e così veniva fuori una specie di predella dove sedersi. Da queste condizioni primordiali alle condizioni del carcere di oggi, in cui ci sono a disposizione strutture dove puoi anche cucinare, anche nei giudiziari e non solo nei penali (quest’ultimi essendo ancora più attrezzati e un po’ più “aperti”), la differenza è considerevole. È passata la riforma. Questa riforma ha migliorato le condizioni carcerarie, certamente le ha migliorate all’interno delle strutture murarie del carcere, questo è logico, ha creato alcune nuove condizioni di socialità, ne ha peggiorato altre, ha creato estreme disparità fra carcere e carcere. Poniamo, la Dozza è un carcere modello, nato come carcere speciale, adesso viene utilizzato come carcere giudiziario normale, ed è infinitamente peggiore del vecchio S. Giovanni. Io che sono stato in tutt’e due i posti posso fornire tranquillamente la prova che la Dozza è peggiore. Però, mentre nel S. Giovanni c’erano le sbarre, poi c’era la rete a protezione delle sbarre, poi c’erano (in parte) le bocche di lupo, alla Dozza ci sono solo le sbarre verticali, e uno sembra che sia libero, ma con tutto ciò le condizioni complessive di carcerazione sono peggiori, sono più disumane. Mentre nel S. Giovanni uno non poteva andare fuori dalla cella a passeggiare libero nel braccio (sempre nelle ore fissate dalla direzione), nella Dozza sei libero nel braccio, insomma ci sono delle differenze... Però questi movimenti sono, come dire, pulsazioni interne al sistema carcerario. La maggiore larghezza carceraria si restringe subito, basta che qualcosa non va, basta che invece di un impiccato ogni 15 giorni ce ne sia uno la settimana, già le cose cambiano. Oppure, basta, come è avvenuto alla fine del 1987, appunto alla Dozza, una semplice protesta, che la custodia risponde con un attacco armato, come quello comandato dal maresciallo nazista, comandante militare della Dozza, contro l’infermeria. In questi casi il carcere cambia immediatamente. Però, queste pulsazioni interne al singolo carcere, hanno un loro rapporto con la pulsazione di sviluppo e di trasformazione dell’intero mondo carcerario, che va verso una sua apertura. Perché va verso un’apertura? Perché l’apertura corrisponde a quelle che sono le condizioni di sviluppo del sistema carcerario, di allargamento della perifericità delle sue strutture e, in generale, delle strutture dello Stato, di qualsiasi tipo di struttura dello Stato, cioè a dire di una maggiore partecipazione. Questo concetto merita un approfondimento. Tenete presente che il concetto di partecipazione, in base a quel ragionamento sulla contraddizione che facevamo prima, non è del tutto separato dal concetto di distinzione, di separatezza. Io partecipo e, in una prima fase di questa partecipazione, mi sento vicino all’altro, che partecipa assieme a me, nello stesso tempo. Man mano che aumenta questa partecipazione, lo stesso processo di partecipazione mi isola e mi fa diventare differente dall’altro, perché ognuno segue la propria strada nella partecipazione. Vediamo di illustrare meglio questo concetto, perché non è tanto semplice. Ad esempio, questa partecipazione si verifica dappertutto, nella scuola, nelle fabbriche, nella funzione e nella struttura diversa dei sindacati, nella struttura diversa dei Consigli della scuola e della fabbrica, in una parola in tutto il mondo della produzione. La partecipazione si verifica in determinate situazioni in modo differente. Sono differenti le strutture dei quartieri ghetto. Poniamo a Catania nel quartiere di S. Cristoforo, uno dei più significativi come quartiere ghetto ad altissima densità di problemi sociali, adesso c’è un discorso diverso, ci sono i consultori familiari, mentre prima non riusciva ad entrare neanche la polizia. Questa maggiore partecipazione, in che modo ha cambiato il quartiere? Lo ha avvicinato oppure allontanato dagli altri quartieri di Catania? Questo è un problema. Secondo me, lo ha allontanato dagli altri quartieri, lo ha ancora di più specificizzato. Secondo me, lo scopo della partecipazione è la divisione. Il carcere si apre alla partecipazione, ci sono queste strutture di dialogo esterno-interno, come “Carcere-territorio”, poniamo. Complessi di imbroglioni, di ideologi da strapazzo, di rappresentanti dei Consigli comunali, di quartiere e dei sindacati, di delegati del vescovo e di rappresentanti delle scuole. Tutta questa gentaglia non fa altro che avere autorizzazioni in base all’articolo 17 per entrare in galera, contattare il detenuto e quindi stabilire un contatto tra l’esterno e l’interno. Il detenuto ha cento, mille problemi, è come un malato. Se voi entrate in un ospedale e parlate con un malato, quello ha tutti i mali del mondo. Se voi entrate in galera e parlate con un detenuto, lui ha cento problemi. Innanzi tutto è sempre innocente, non ha fatto niente, innanzi tutto la sua famiglia ha sempre bisogno, insomma quelle cose che sono presenti nei discorsi dei detenuti. D’altro canto, ognuno tira acqua al proprio mulino e, in ogni modo, in galera, guai se uno si permettesse di dire: “Io... il carcere, non mi pesa completamente, sono cazzate, sono fesserie...”, no, non verrebbe ben visto. La partecipazione realizza una maggiore separazione, una maggiore divisibilità all’interno del carcere, perché quelle poche persone che hanno una effettiva e cosciente disposizione illegale, cioè a dire che sono realmente “fuorilegge”, e che sono individuabili in galera, perché in una popolazione carceraria, poniamo, di cento detenuti, già li si può vedere al passeggio, e qui si capisce, si distingue facilmente la persona seria dalla persona poco seria, si capisce da tanti modi, da tanti segnali che manda. C’è un discorso complessivo che si sviluppa lì dentro, in base a come passeggi, in base alle scelte che fai, alle parole che dici. Lo so... molti di questi discorsi possono essere letti in chiave sbagliata. Non sto elogiando un comportamento coatto, sto dicendo che c’è una specificità all’interno del carcere, c’è il detenuto che è cosciente del proprio mestiere di detenuto, della propria qualificazione di detenuto, e c’è il detenuto che si trova per sbaglio in galera, il detenuto che poteva essere benissimo un dirigente di banca, o semplicemente un povero imbecille, cioè il detenuto che ha trovato in galera una sua transitoria sistemazione, che vede il carcere come una disgrazia transitoria (quanto più breve possibile) o come un’assistenza sociale. Ho visto persone che si facevano arrestare apposta sotto Natale, perché a Natale danno il panettone (e vi pare poco?), oppure per darsi una pulita come si deve, o per farsi curare, perché per molti non c’è modo di potersi curare se non in galera, e sono non uno o due ma centinaia di casi. Ma c’è un’altra popolazione detenuta, la quale ha l’orgoglio di essere “fuorilegge”, l’orgoglio di potere attaccare, sia pure a suo modo, determinate strutture dello Stato. Questa popolazione, in quel contesto di partecipazione, non è disposta evidentemente a partecipare, quindi subirà una particolare identificazione, una particolare divisione. Ecco perché il carcere partecipativo è un carcere di divisione, perché separa. Non tutti possono partecipare allo stesso livello, non tutti accettano lo stesso dialogo con il potere. Ci sono diversi livelli di accettazione e, in funzione di questi differenti livelli di accettazione, la partecipazione crea divisioni. E, più intensa è questa partecipazione, più è settorializzata, più sono i segnali che pervengono, più avviene una compartimentazione del mondo detenuto. Riguardo il problema di accettare un rapporto più morbido con l’istituzione carceraria c’è da sviluppare un discorso complesso che qui do per scontato avendolo fatto tante volte in passato. Prendiamo l’esempio della semilibertà. Non c’è un passaggio diretto tra carcerazione e semilibertà. Quindi, non si tratta della decisione di un momento, che si riassume in un rapporto diretto tra carcere e detenuto. Prima della concessione della semilibertà c’è tutto un iter che si chiama “trattamento” – la scelta della parola non è casuale – in quanto il detenuto è considerato come un malato. Il trattamento è un susseguirsi di parecchie decisioni che il detenuto deve prendere. Comincia con un colloquio con uno psicologo, poi si ha l’accettazione di un lavoro nella struttura carceraria, e continua con il fatto che tu non devi avere avuto questioni all’interno del carcere, quindi è una cosa che dura almeno due o tre anni. Cioè, si deve scegliere per tempo la strada di contrattare col potere. Scelta legittima, per carità, ma sempre nell’ottica di quella desistenza, per cui uno dice: “Non mi sento di andare avanti. Non sto danneggiando nessuno, e intraprendo questa strada”. Allora, se la guardia si comporta in un certo modo, io faccio finta di guardare il muro che mi sembra interessante; se c’è un problema, non dico una rivolta, ma un semplice problema, resto in cella e non vado all’aria. Tutti questi momenti comportano una scelta, non c’è una alternativa secca tra detenzione e semilibertà, questa è pura teoria, nella pratica non è così. Praticamente, questo problema c’è per quei detenuti che hanno una loro coerenza di scelte rivoluzionarie. Ma il detenuto in generale, il detenuto che si trova in carcere per motivi suoi e che non ha rivendicato nessuna identità “politica”, per quanto rarefatto possa essere ormai questo concetto, fa un ragionamento in termini di praticabilità di una scelta, non si pone un problema del genere nemmeno nella più remota delle ipotesi. Tenendo conto della sua storia personale, del contesto in cui si inserisce e della realizzazione pratica di quello che la legge gli propone in termini di possibilità giuridica. Si tratta di un itinerario della durata di due, tre anni, non è la decisione di un momento. Naturalmente, il carcere del futuro, che penso sarà molto più aperto di quello di oggi, avrà una maggiore attenzione, quindi sarà molto più repressivo, molto più chiuso, totalmente chiuso, nei confronti di quella minoranza che non accetterà la contrattazione, che non vorrà partecipare, che rifiuterà qualsiasi discorso di partecipazione. Ecco perché ho parlato del rapporto che passa tra la partecipazione e la divisione, rapporto che apparentemente può sembrare tutt’altro che evidente. Cose così lontane tra di loro, invece, si scoprono vicine: la partecipazione crea la divisione. Allora, cosa fare? Questa domanda sul carcere ce la siamo posta tante volte. Ho letto un piccolo opuscolo. Sul carcere, per principio, non leggo quasi niente perché mi fa schifo leggere testi che parlano del carcere. Ma, visto che mi era stato chiesto da compagni, ho accettato di tenere un discorso, diciamo così, “in famiglia”. Però, dicevo, questo opuscolo l’ho letto. Si tratta di un opuscoletto pubblicato dai compagni di Nautilus, dove c’era un testo abolizionista sul carcere e poi un discorso finale di Riccardo D’Este, discorso interessante, anche se non sono riuscito con esattezza a capire cosa lui volesse dire, cioè se facesse o meno una critica della posizione abolizionista, oppure non riuscisse a farla fino in fondo, visto che, dopo tutto, stava presentando quel testo. Però, in quel testo c’è una cosa che non mi va e questa la voglio dire, e quando vedrò Riccardo gliela dirò. Lui ha condannato senza appello, proprio in assoluto, coloro che in passato avevano teorizzato e realizzato attacchi contro le carceri. Questo giudizio, a me pare sbagliato. Lui dice questo... Tenete presente che Riccardo è un bravissimo compagno che forse avete conosciuto in una delle sue conferenze, qui a Bologna. Egli dice questo: “Quegli attacchi non valevano nulla, non avevano senso, tanto è vero che le carceri le hanno costruite lo stesso”. Ma come, santo cristiano! Tu che sei antiefficientista per tutto il resto, mi fai un discorso del genere che è eminentemente efficientista. Che vuol dire che le carceri le hanno costruite lo stesso? Forse che tutte le cose che facciamo, quando non sortiscono l’effetto voluto, oppure non arrivano allo scopo prefissato, non valgono un cazzo!? Scusate se ve lo rendo in maniera semplicista, ma il discorso di attacco alle carceri a me interessa in modo particolare. E no! Le carceri vanno attaccate. Questo non vuol dire che una volta deciso di attaccare le carceri non ci saranno più carceri. Oppure, perché le abbiamo attaccate una volta possiamo dirci contenti e non fare più nulla per distruggerle. Ricordo qui il tentativo di distruggere le carceri di Sollicciano, quando le stavano costruendo. Il tentativo c’è stato, ma le carceri di Sollicciano le hanno costruite lo stesso. Ma cosa vuol dire, che quell’attacco là non ha avuto senso? Io penso di no. Perché se dovessimo arrivare a questa conclusione alla quale penso, per un errore di penna, come mi voglio illudere, sia arrivato Riccardo, dovremmo condannare qualsiasi cosa stiamo facendo. Perché, qualsiasi cosa i compagni rivoluzionari ed anarchici fanno non ha affatto la garanzia di arrivare immancabilmente allo scopo, sortire il risultato che chi la compie si prefigge. Se fosse così staremmo freschi veramente. Riguardo la tesi di Riccardo D’Este, c’è da dire che la conosco non solo per avere letto l’opuscolo sul carcere, ma anche per averne parlato con lui. Riccardo è una persona affascinante, ma quando uno lo ascolta, o lo legge, fa bene a separare in quello che lui scrive e in quello che dice, il grano dalla pula, in modo da stabilire quanto appartiene al fascino di come lo dice e quanto appartiene alla fondatezza di quello che dice. Secondo me, non è giusto il discorso che lui fa sulla possibile integrazione tra riforme e estremismi, non esiste, nella realtà, una separazione del genere. Non ci sono, nella realtà, lotte riformiste e lotte rivoluzionarie. È il modo in cui tu realizzi una lotta, quello che conta. Come si può vedere nella discussione fatta poco prima, anche il modo di comportarsi con gli altri conta moltissimo: se io mi comporto in un certo modo con la mia compagna, sono riformista o rivoluzionario? No, l’alternativa non è questa, piuttosto è quella di vedere se io sono uno stronzo oppure no. E se io opero una distinzione tra il mio modo di essere e il mio modo di agire, il mio modo “politico” di apparire, e il mio modo di essere nell’intimità dei miei rapporti con coloro che mi stanno più vicino, allora ridiventa valida la distinzione tra riformismo ed estremismo, in caso contrario ipotizzare questi concetti in maniera pura è qualcosa di assurdo. Non è vero che da questa integrazione tra un apparente riformismo e un apparente estremismo, viene fuori qualcosa che abbia possibilità di incidere nella realtà. A me non sembra che sia così. Io ho vissuto tutto ciò in maniera diversa. Ho visto che in qualsiasi cosa un individuo fa, deve pure valutare quali sono le sue scelte di fondo e queste scelte significano che l’individuo si coinvolge in quello che fa, perché se non si coinvolge, se si chiama continuamente fuori, è chiaro che può essere rivoluzionario soltanto a chiacchiere, oppure può conquistare il mondo, ma per farne che cosa? Per farne un nuovo teatro di tragedia greca? Che cosa sta dicendo una tesi del genere? Assolutamente nulla. Il ragionamento da fare è un poco diverso. Quella distinzione non esiste. Invece, se la facciamo operare in quanto distinzione, se operiamo in un mondo del politico, in un mondo dello spettacolo, della rappresentazione (nel senso di Schopenhauer), se riduciamo il mondo a questa rappresentazione (non dimentichiamo che Schopenhauer prestò il proprio binocolo ad un ufficiale prussiano perché sparasse meglio sugli insorti, ed è quest’uomo che ci parla del “mondo come rappresentazione”, non quello che si sono sognati alcuni lettori anarchici del suo libro), quindi se noi immaginiamo il mondo come rappresentazione, allora sì che è possibile una distinzione tra riforma e rivoluzione, ma si tratta ancora una volta di chiacchiere. Nella realtà non ci sono queste idee astratte, ma c’è l’uomo, con i suoi rapporti complessivi, e con questi rapporti contribuisce a trasformare la realtà, quindi nelle cose che fa non è possibile individuare con esattezza quella distinzione. Craxi cos’è: riformista? rivoluzionario? Per me questa distinzione cattedratica tra riforma e rivoluzione non ha tutto il senso che in passato le si è voluto dare. Certo – e sia qui detto tra parentesi – anch’io ho usato questi termini, qualche volta, ad esempio ho usato il termine “riformista” o “socialdemocratico” anche per definire la pratica di qualche gruppo anarchico, quasi sempre per caricare con questi termini la vis polemica che mi sembrava, ad un certo punto, necessaria. Molte volte uno predica bene e razzola male. Ma non è questo il punto. Bisogna però tenere conto del contesto in cui si inserisce la polemica, la visione delle conseguenze di certe posizioni dell’avversario e la necessità di trovare la strada più breve per raggiungere un obiettivo, che è appunto quello della polemica in corso. In un contesto in cui diventa di pubblico dominio assegnare una certa significatività ad un termine come socialdemocratico e, al contrario, se vuoi criticare qualcuno, colpirlo per qualcosa che quel qualcuno ha fatto, gli dici che è socialdemocratico. Si tratta della strumentalità dell’uso di un termine non dell’approfondimento di un’analisi. Difatti io ho più volte criticato una parte del movimento anarchico italiano definendola socialdemocratica, ma non ho mai fornito un’analisi approfondita del perché. C’era una fondatezza dell’uso del termine in quanto per noi socialdemocratico significa una cosa precisa, cioè riformismo, aggiustamento del potere, ecc. Qualche parola critica in più sul problema dell’efficientismo. È una questione che ognuno valuta da sé. Io provengo da una cultura e da un modo di pensare le cose che si possono definire efficientisti, sono nato in un’atmosfera efficientista, esco dalle scuole dell’efficientismo. Poi mi sono convinto che l’efficientismo non porta in nessun posto. Mi sono convinto... teoricamente, magari nella pratica sono ancora efficientista, però, almeno in teoria, riesco a capire la differenza, cioè che non tutti gli atti che un uomo compie devono necessariamente avere una immediata retribuzione in termine di effetto. Questo è fondamentale. Capire una questione del genere è fondamentale per tanti motivi, perché, prima di tutto, specie nei rivoluzionari, c’è la tendenza a presentare il conto, e non dimentichiamo che i rivoluzionari sono esosi, sono creditori esosissimi... montano subito la ghigliottina, non aspettano per niente, questa è una cosa tremenda. In effetti, che cos’è la ghigliottina del rivoluzionario? È l’effetto dell’efficientismo, perché raggiunge determinati processi e poi comincia a... Ho letto recentemente qualcosa riguardo lo stupore suscitato da certi documenti di Lenin. Molti si sono sbalorditi perché Lenin ordinava e sollecitava ad ammazzare i proprietari contadini. A me la cosa non ha fatto meraviglia. È normalissimo ammazzare i proprietari contadini in nome dell’efficientismo rivoluzionario. O uno si meraviglia per tutto quello che riguarda l’efficientismo, oppure non si può meravigliare per una lettera del genere perché è una cosa normale, necessaria, una logica conseguenza delle scelte fatte prima. Se uno vuole raggiungere determinati scopi, deve sopportare determinati costi, questo è il concetto dell’efficientismo. Il discorso sull’efficientismo riguarda il come impostare una lotta corretta, diciamo, contro l’istituzione delle carceri, che incombe un po’ su tutti noi. Mio nonno diceva: “Un mattone delle carceri l’abbiamo tutti quanti. A tutti quanti ci tocca un mattone a testa”, diceva lui. Non è che capisse molto di carcere, però quello era un proverbio siciliano molto diffuso all’epoca. Quindi, fare entrare il carcere in tutti i processi di intervento nella realtà, in quelle che tanti anni fa abbiamo chiamato lotte intermedie. Si tratta di tutti quegli interventi che facciamo nella realtà pur essendo sicuri che da esse non verrà fuori un enorme risultato, un effetto, perché magari saranno recuperate, o perché hanno finalità loro intrinseche che sono circoscritte. Se queste lotte sono impostate correttamente, alcuni risultati li hanno sempre. Innanzi tutto li hanno in termini di efficacia della lotta stessa in un senso diverso dell’efficientismo. Cioè, se sono impostate correttamente, le lotte sociali si riproducono. E come possono essere impostate correttamente? Innanzi tutto, sganciandole dalle deleghe di altre realtà, dall’ipoteca di eventuali sostegni, in altre parole autogestendole. Poi, non possono essere, ovviamente, consegnate a scadenze precise, fissate nei laboratori del potere, quindi devono anche partire da una mentalità differente, da una logica di conflittualità permanente, in quanto noi non possiamo fare scattare queste lotte in funzione della scadenza precisa che ci viene fissata dal potere. Questi due concetti, quello di autogestione e quello di conflittualità permanente, uniti al terzo concetto, che è quello fondato sul rifiuto di una necessaria e ineliminabile efficacia immediata, visibile, non partono da una concezione utopica della realtà, ma si basano sulla possibilità concreta di impostare le lotte sociali in modo da rifiutare uno sbocco immediatamente traducibile in quantità, in risultati quantitativi. Questo è possibile, anzi, se bene riflettiamo, è continuamente possibile. Ora, molto spesso, commettiamo l’errore di volere circoscrivere la lotta per essere più leggibili, perché, magari, intervenendo in una specificità, come per esempio la fabbrica, vediamo bene quali sono le sue caratteristiche: la lotta salariale, la difesa del posto di lavoro, la lotta contro la nocività del lavoro, e tante altre cose, ma non riusciamo a capire bene come potrebbe entrarci il carcere, e allora non lo inseriamo per non inquinare quelle specificità, perché pensiamo che la gente ci capisca meno se allarghiamo il discorso. In se stessa, la lotta, poniamo in una fabbrica, è sempre una lotta intermedia. Quale può essere la conclusione di un intervento del genere? Nella migliore delle ipotesi si ottiene il risultato voluto, cioè che i lavoratori di quella fabbrica salvano il posto di lavoro, poi, tutto viene recuperato. La lotta si recupera, i padroni trovano un’alternativa alla cassa integrazione, trovano un’alternativa alla nocività del lavoro, investimenti ulteriori per migliorare il contesto, eccetera. Questo tipo di situazione a noi già risulta soddisfacente, e in effetti lo è anche da un punto di vista rivoluzionario, se si sono mantenute quelle condizioni iniziali, cioè a dire la conflittualità permanente, se la scadenza l’abbiamo voluta noi e non ci è stata imposta, se si è mantenuta l’autogestione della lotta e tutto il resto. Ma non diventa più soddisfacente se, in nome dell’efficientismo, ci vietiamo la possibilità di inserirci anche il momento del carcere. Perché per me il discorso sul carcere, come qualsiasi altro aspetto del discorso rivoluzionario, deve essere inserito in tutte le lotte che facciamo. E se ci riflettiamo bene è possibile fare una cosa del genere. Quando non la facciamo è solo in nome dell’efficientismo, perché pensiamo di non essere capiti oppure di apparire pericolosi, per cui riteniamo il problema del carcere qualcosa che, in certi casi, è meglio evitare. Non parlare male di Garibaldi. Qualche parola adesso sulla posizione abolizionista. Tenete presente che io non sono affatto documentato in modo corretto sull’argomento, quindi potrei dire anche delle cose parziali, prima di tutto perché non condivido, per quello che ho capito, la posizione abolizionista, poi, appunto, per mancanza di documentazione. Se il mio discorso dovesse risultare parziale, bene, correggetemi. Non condivido la posizione abolizionista, dicevo, non perché voglio le carceri, mi pare ovvio, non la condivido perché non condivido qualsiasi posizione che intende abolire una parte di un complesso assolutamente inscindibile nei suoi elementi. Scusate il mio linguaggio approssimativo. In altre parole, non sono d’accordo che si possa ipotizzare l’abolizione, non l’attacco, ma l’abolizione, cioè proporre una piattaforma per abolire un aspetto di un contesto organicamente inscindibile nelle sue parti. Io non sono d’accordo che si faccia una proposta per abolire la magistratura, perché per me non ha senso una proposta del genere, oppure per abolire la polizia. Questo non vuol dire che io sia favorevole alla magistratura o alla polizia. Allo stesso modo, non sono per l’abolizione dello Stato ma solo per la sua distruzione. E non solo sono d’accordo ma sono disponibile ad agire in vista di uno scopo del genere, quando che sia, anche se è estremamente poco probabile in tempi brevi. Sono cioè disponibile a fare qualcosa, e posso discutere su cosa fare in termini di attacco contro questo o quell’aspetto specifico dello Stato, e quindi anche contro il carcere. In altre parole, secondo me, il discorso va ribaltato. Non è una questione di abolizione di una parte dello Stato, come, per tornare al nostro argomento, le carceri, ma è una questione di distruzione dello Stato, la quale, ovviamente, non può essere totale in maniera immediata, se no si rinvierebbe alle calende greche questo avvenimento. Sembrerebbe l’attesa di quella famosa linea della Storia che si muove e che in ogni caso va verso l’anarchia e allora si finirebbe per non fare niente aspettando che questa anarchia si realizzi da sola. Al contrario, io sono disposto a fare qualcosa oggi, subito, anche nella specificità di una parte dell’istituzione totale “Stato”, quindi anche contro il carcere, o contro la polizia, o contro la magistratura, o contro tutti gli elementi portanti ed essenziali dello Stato, nell’attesa di distruggere definitivamente lo Stato. Questo è il concetto che volevo chiarire. Difatti, a cosa corrispondono questi discorsi? Spendiamo altre due parole, non vi innervosite, vi giuro che non vi tedierò più a lungo. Se voi riflettete bene, il concetto di abolizione delle carceri nasce in un contesto teorico ben preciso, che francamente non vi saprei dire qual è, ma nasce parallelamente a qualcosa che so un po’ meglio, ed è questo. In America, in questo momento, all’interno del pensiero filosofico generale, ma anche in quello sociologico, ci sono diverse università che stanno lavorando sul problema della trasformazione della democrazia. All’interno di questo contesto, ci sono diversi studiosi americani, fra cui il più famoso si chiama Robert Nozik, del quale è uscito qualche libro anche in italiano, che hanno affrontato il problema di una situazione di vita comunitaria senza la sanzione, senza la pena e senza gli strumenti di repressione. Perché si pongono questo problema? Perché, evidentemente, queste persone illuminate si rendono conto che la struttura democratica, così come la conosciamo noi, non è in grado di vivere a lungo, e devono cercare una soluzione diversa; devono cercare in che modo possono venire fuori strutture comunitarie prive di determinati elementi quali, appunto, il carcere, la polizia, la struttura di controllo dello Stato, ecc., elementi che per noi sono connaturati all’esistenza dello Stato. Questo dibattito non è una cosa periferica, è centrale nel pensiero politico e filosofico delle università americane. E, secondo me, l’abolizionismo, correggetemi se sbaglio, si potrebbe riportare a questo movimento, ma si tratta di un argomento che dovrebbe essere meglio approfondito da chi ne sa più di me, io non voglio dire di più. Diciamo che questo tipo di problema, specialmente in pensatori come Nozik, ma ce ne sono altri che adesso mi sfuggono che affrontano lo stesso discorso, è solo l’indice di un interesse teorico che si fonda su di alcune necessità pratiche di gestione del potere. Evidentemente, il modello storico della democrazia, ad esempio il libro di Alexis de Tocqueville, oggi non è più accettabile. Non è quella la democrazia di cui stiamo parlando. Oggi occorrono altre strutture. Pensate ad un paese come la Cina. Come si fa a gestire la democrazia futura della Cina basandosi su di un modello come quello di Tocqueville? Ad esempio, come può funzionare un parlamento con ventisettemila deputati? impossibile. Devono trovare una strada diversa. E in questa direzione stanno lavorando. Si tratta di questi segnali che vediamo, in modo diverso, anche in Italia. Trasformazioni istituzionali, come dicono loro, che sono l’espressione di un malessere generalizzato che tocca la democrazia. Ma anche studiosi che sembrerebbero lontani da riverniciature democratiche, come Michel Foucault, hanno dato il loro contributo ad un perfezionamento del carcere, quindi a una razionalizzazione della struttura istituzionale. Riguardo Foucault, diciamo che, almeno per quello che posso conoscere io, visto che conosco meglio i suoi scritti sulla storia della follia, c’è nella sua riflessione lo sviluppo di due pensieri fondamentali: uno legato al superamento e l’altro al mantenimento di un processo in corso. Ciò porta questo pensatore a lasciare costantemente, in tutto quello che pensa, qualcosa di non sufficientemente definito. In tutte le sue proposte, anche nella proposta riguardante l’omosessualità, considerata nello stesso tempo come diversità e come normalità, non è mai chiaro quale decisione vuole prendere. D’altronde, l’ambivalenza è tipica in questo pensatore, e non solo in lui ma in tutta quella gente che cerca di mantenersi in equilibrio. La questione del carcere, in fondo, per lui è il problema di uno strumento del cui uso non è convinto, vorrebbe farne a meno ma non sa pensare altro che a metterlo tra parentesi. Infatti, ad un certo punto, fa l’esempio della nave dei folli, che era carcere, manicomio, brefotrofio e casa di riposo per le vecchie prostitute, tutto in una volta. Egli scrive che la nave dei folli venne messa in pratica in pochissimi giorni, che per realizzarla ci volle pochissimo tempo. Nel momento in cui la società espulse dalle città gli individui diversi (veramente non parla degli omosessuali), li mise fuori dalla cerchia delle mura. E questi, non sapendo cosa fare, migravano da città a città, per cui, ad un certo momento, li presero e li misero su una nave, la nave dei folli. Questa nave cominciò a navigare da porto a porto perché non la voleva nessuno. Una nave sempre in circolazione. In quel momento si venne a creare il carcere, il manicomio, il brefotrofio e la casa di riposo per le vecchie prostitute, perché la società in quel momento non poteva più sopportare queste presenze. Erano scomparse, come dire, alcune funzioni sociali: quella del folle, che nella società medioevale era visto anche come il tipo toccato da Dio, e quella del mendicante, che nei paesi cattolici era il soggetto su cui esercitare la carità, principio fondamentale, non dimentichiamolo, del cristianesimo cattolico. Con lo sviluppo del pensiero protestante, il mendicante diventa oggetto di cattura, quindi deve essere messo da parte. Quando la società non ne ha più bisogno la figura del mendicante diventa superflua, il mendicante scompare come oggetto di carità e diventa prigioniero. Oggi, che la società non ha più bisogno di carcere, dovrebbe scomparire “l’oggetto” prigioniero. Come farlo scomparire? Pigliamo una nave e mettiamo tutti i prigionieri su una nave. Ma così “l’oggetto” prigioniero non scompare perché la nave diventa un carcere, come facevano i francesi con i deportati della Comune di Parigi: li mettevano nei pontoni, battelli ormeggiati a Le Havre, e lì dentro la gente ci restava per 4 o 5 anni, prigioniera di un carcere galleggiante. Ora che la società non ha più bisogno di carcere, dicono alcuni illuminati pensatori sociali, trasferiamo i detenuti in un’altra istituzione sociale. Che poi sarebbe il progetto della posizione abolizionista. E qui il discorso di Foucault torna a perfezione. Questo era quello che volevo dire. Torniamo adesso, per un attimo, al discorso dell’attacco. Io sono sempre per l’attacco specifico. L’attacco specifico è importante, non solo per il risultato che produce, non solo per gli effetti che causa, che possiamo vedere sotto i nostri occhi. Nessuno di noi può avere la pretesa di essere funzionalista, perché se caschiamo in questo equivoco non facciamo più niente. Quindi, le carceri vanno prima capite, perché non si può fare nulla se prima non si capisce la realtà che si vuole combattere, poi vanno fatte capire, e poi vanno attaccate, non c’è altra soluzione. Vanno attaccate nella loro specificità. Questi attacchi non hanno nulla delle grandi operazioni militari che qualcuno si immagina. Io ho sempre pensato che questi attacchi sono come una gita in campagna: uno dice: “io oggi mi sento rinchiuso in queste sedi anarchiche (che a me francamente un po’ mi deprimono), e mi voglio fare una passeggiata”, non stiamo sempre chiusi in queste sedi, facciamoci due passi. Con questo atteggiamento, non dico goliardico, perché la parola è stupida, però con questo atteggiamento diciamo sdrammatizzante, farsi una gita in campagna è sempre possibile, non è un fatto che fa male alla salute. E ciò senza stare molto a ricamarci sopra con le parole, senza trasformare una gita in campagna in una specie di crociata contro gli oppressori di oggi, di ieri, di sempre. No, una cosa piacevole, un’attività che deve anche procurarci gioia, una gita in campagna, ma anche una cosa specifica. Però, le carceri vanno attaccate anche in un contesto di lotta generale, cioè nel corso di qualsiasi lotta che riusciamo a sviluppare. E questo è un discorso che facciamo da almeno dieci anni. Noi, qualunque cosa facciamo, di qualunque discorso parliamo, dovremmo farci entrare il carcere, perché il carcere è elemento essenziale di qualunque discorso. Facciamo un discorso sul quartiere, sulla sanità, ecc., dobbiamo trovare, e c’è il modo, di farci entrare il discorso del carcere come struttura repressiva, denunciando tutti i tentativi di attutire la potenzialità del carcere come elemento di disturbo dell’equilibrio sociale. Tenete presente che, come abbiamo visto, il carcere è un elemento in movimento, non è una cosa ormai sigillata e definitiva. Per loro, il carcere è un elemento di disturbo. Sono tutti continuamente messi là a riflettere su cosa fare per risolvere il problema del carcere. Ora, il loro problema del carcere deve diventare il nostro problema del carcere e questo problema dobbiamo rifletterlo all’interno delle lotte che realizziamo, se le realizziamo. E questo, naturalmente, in attesa della prossima insurrezione, perché nel caso dell’insurrezione, allora, basta aprire le carceri e distruggerle definitivamente. Grazie.